sabato 26 ottobre 2024

Spirerò nobil sensi a' rozzi petti

Spirerò nobil sensi a' rozzi petti, 
raddolcirò de le lor lingue il suono; 
perché, ovunque 'i mi sia, io sono Amore, 
ne' pastori non men che ne gli eroi, 
e la disagguaglianza de' soggetti
come a me piace agguaglio; e questa è pure 
suprema gloria e gran miracol mio: 
render simili a le più dotte cetre 
le rustiche sampogne


(Torquato Tasso; "Aminta") 

...una vita così lieve, di gesti lenti

(...) nei musei sono tante fanciulle (...) Si trovano davanti a quegli arazzi e si lasciano un po' andare. Hanno sempre sentito che questo è esistito, una vita così lieve, di gesti lenti, mai spiegati per intero, e ricordano oscuramente come per un periodo persino credettero che sarebbe stata la loro vita. Ma poi tirano fuori in fretta un quaderno e cominciano a disegnare non importa cosa, uno dei fiori o un piccolo animale felice. Non ha importanza, è stato detto loro, se è una cosa o l'altra. E davvero non ha importanza.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

...dentro di me è a casa sua

Qui riconosco tutto, perciò entra subito in me: dentro di me è a casa sua.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

Immaginavo questo, mentre disegnavo

Quanto piccolo a quel tempo dovessi ancora essere lo vedo nel fatto che, per arrivare bene al tavolo su cui disegnavo, stavo inginocchiato sulla sedia. Era sera, d'inverno, se non sbaglio, nell'appartamento di città. Il tavolo si trovava nella mia camera, tra le finestre, e nella stanza non c'era altra lampada se non quella che illuminava i miei fogli e il libro di Mademoiselle; Mademoiselle, infatti, mi sedeva vicino, appena dietro, e leggeva. Quando leggeva era molto lontana, non so se fosse nel libro; poteva leggere per ore voltando raramente le pagine, e avevo l'impressione che sotto il suo sguardo le pagine diventassero sempre più piene, quasi vi vedesse parole in più, certe precise parole che non c'erano e di cui aveva bisogno. Immaginavo questo, mentre disegnavo. Disegnavo adagio, senza un'intenzione molto precisa, e quando non sapevo andare avanti, guardavo l'insieme con il capo piegato un po' a destra: in questo modo mi accorgevo sempre rapidamente di quanto ancora mancava. Erano ufficiali a cavallo che entravano nella battaglia o che ci si trovavano in mezzo, cosa, questa, molto più semplice, perché bastava fare quasi soltanto il fumo che avvolgeva tutto. Maman, veramente, sosteneva sempre che erano isole quelle che coloravo; isole con grandi alberi e un castello e una scalinata e fiori sulla balaustra che si specchiavano nell'acqua. Ma credo che lo inventasse o che debba essere stato più tardi.
Sta di fatto che quella sera disegnavo un cavaliere, un unico, ben evidente cavaliere, su un cavallo curiosamente bardato. Diventava così variopinto che dovevo cambiare spesso matita, ma soprattutto era il rosso, cui di continuo ricorrevo, ad essere preso in considerazione. Ne avevo appunto ancora bisogno: quando (mi sembra di vederlo) rotolò obliquamente fino all'orlo del foglio illuminato, prima che potessi impedirlo cadde davanti a me e scomparve. Mi occorreva proprio subito, ed era molto sgradevole cercarlo a gattoni. Maldestro com'ero, arrivai in basso solo dopo manovre d'ogni genere; le gambe mi parevano troppo lunghe, non potevo tirarle fuori di sotto il corpo; le membra, stando inginocchiato troppo a lungo, s'erano intorpidite, non sapevo più che cosa appartenesse a me e cosa alla seggiola. Alla fine, però, fui in basso, un po' frastornato, e mi trovai su una pelliccia che da sotto il tavolo arrivava sino al muro. Ma a questo punto si presentò una nuova difficoltà. Regolati sulla luce di sopra e ancora entusiasti dei colori sul foglio bianco, i miei occhi non riuscivano a distinguere nulla sotto il tavolo, dove il nero mi parve così compatto che avevo paura di urtarvi. Mi rimisi dunque alla mia sensibilità e in ginocchio, appoggiato sulla mano sinistra, presi a pettinare con la destra il tappeto fresco, dai lunghi peli, che sentivo tanto amichevole; della matita, però, nessuna traccia. Pensai che stavo perdendo molto tempo ed ero sul punto di chiamare Mademoiselle, pregandola di reggermi la lampada, quando mi accorsi che ai miei occhi, involontariamente aguzzati, il buio diventava sempre più trasparente. Potevo già distinguere sul fondo la parete, che terminava con uno zoccolo chiaro; mi orientavo attraverso le gambe del tavolo; riconoscevo soprattutto la mia mano che, con le dita divaricate, si muoveva là tutta sola, come un animale acquatico, e cercava sul fondo. La guardavo, ricordo, quasi curioso; mi pareva sapesse cose che non le avevo insegnato, mentre testava là sotto in modo tanto arbitrario, con movimenti che non le avevo mai notato. La seguivo mentre avanzava, m'interessava, ero pronto a tutto. Ma come sarei dovuto essere preparato al fatto che a un tratto dalla parete le venne incontro un'altra mano, più grande, d'una magrezza insolita, quale non avevo mai veduto. Quella veniva avanti dall'altra parte cercando allo stesso modo, e le due mani aperte avanzavano cieche una contro l'altra. La mia curiosità non si era ancora esaurita, ma d'improvviso finì e ci fu solo raccapriccio. Sentii che una delle mani m'apparteneva, e che in quel momento si abbandonava a qualcosa d'irreparabile. Con tutto il diritto che avevo su di essa la trattenni e la ritirai adagio, distesa, mentre con gli occhi non lasciavo l'altra, che continuava a cercare. Capii che non avrebbe smesso, non so dire come mi risollevai. Mi accasciai sulla seggiola, i denti mi battevano, e avevo sul viso così poco sangue che credetti mi si fosse sbiancato l'azzurro degli occhi. Mademoiselle - volli dire e non potei, ma lei si spaventò da sola, buttò via il libro, si inginocchiò vicino alla sedia e gridò il mio nome; forse mi scosse. Ma io ero pienamente cosciente. Inghiottii più volte: perché volevo raccontarle la cosa. 
Ma come? mi concentrai in modo indescrivibile, ma la cosa non si poteva esprimere in modo che uno la capisse. Se per quell'evento, c'erano parole, ero troppo piccolo per trovarle. E d'un tratto mi assalì la paura che, scavalcata la mia età, potessero d'un tratto presentarsi, quelle parole, e il fatto di doverle allora dire mi parve più terribile di tutto. Rivivere la realtà di là sotto, mutata, dal principio alla fine; udirmi mentre l'ammettevo, non avevo più forza di farlo. 
Naturalmente è una fantasia pensare adesso che allora già sentissi qualcosa di nuovo entrare nella mia vita, proprio nella mia, una cosa con cui sarei dovuto andare da solo, per sempre. Mi vedo disteso, sveglio nel mio lettino con le sponde, in qualche modo prevedere vagamente che la mia vita sarebbe stata così: piena di cose strane, che sono destinate a uno solo, e che non si lasciano dire. Certo è che a poco a poco crebbe in me un triste e pesante orgoglio. Mi figuravo come sarei andato per il mondo, l'animo pieno di vita segreta, taciturno.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

...così avevano combattuto i suoi avi dimenticati

Non fu faticoso per lui imparare a combattere lacerando e azzannando al modo dei lupi, perché così avevano combattuto i suoi avi dimenticati. Essi ravvivavano in lui l'antica vita, e le antiche astuzie da loro lasciate in eredità all'esistenza erano le sue stesse astuzie. Apparivano in lui senza sforzo e senza meraviglia, come se fossero sempre state sue; e quando nelle lunghe notti gelate levava il muso alle stelle gettando lunghi ululati al modo dei lupi, erano i suoi antenati morti e ridotti in polvere, che levavano il muso alle stelle e ululavano nei secoli attraverso di lui. Quel grido modulato era il loro grido con cui avevano espresso la loro pena e tutto ciò che potevano suggerire loro la quiete, il freddo e la notte.


(Jack London; "Il richiamo della foresta")

martedì 22 ottobre 2024

Trecento poeti non esistono

- Bibliothèque Nationale 

Siedo e leggo un poeta. Nella sala c'è molta gente, ma non si avverte. Sono nei libri. A volte si muovono tra le pagine come persone che dormono e si rigirano tra due sogni. Ah, come è buono stare in mezzo a uomini che leggono. Perché non sono sempre così? Puoi avvicinarti a uno e sfiorarlo: non sente nulla. E se nell'alzarti urti appena un vicino e ti scusi, lui accenna col capo dalla parte in cui sente la tua voce, il suo viso si volge verso di te e non ti vede, e i suoi capelli sono come i capelli di un uomo che dorme. Come fa bene questo. Ed io siedo e ho un poeta. Che destino. Nella sala sono ora forse trecento persone, ma è impossibile che ognuna di esse abbia un poeta. (Sa Iddio che cos'hanno). Trecento poeti non esistono.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

Il mondo non è tutto tuo?

La terra è ancora calda di te, gli uccelli lasciano ancora spazio alla tua voce. La rugiada è un'altra, ma le stelle sono ancora le stelle delle tue notti. Il mondo non è tutto tuo? Quante volte non l'hai incendiato con il tuo amore, non l'hai veduto fiammeggiare e incenerire, per sostituirlo segretamente con un altro, mentre tutti dormivano. Ti sentivi così in armonia con Dio, nel chiedergli ogni mattina una nuova terra, perché vi avessero posto tutti quelli che lui aveva creato. Ti sembrava meschino risparmiarla e ripararla: la consumavi e tendevi le mani per avere sempre più mondo. Perché il tuo amore era all'altezza di tutto.
Come è possibile che tutti non parlino ancora del tuo amore? Che cosa, da allora, è avvenuto che fosse più meraviglioso? Che altro può occuparli? Tu stessa conoscevi il valore del tuo amore, lo gridasti al tuo più grande poeta perché lo rendesse umano; era infatti ancora un elemento. Ma il poeta, scrivendoti, ne ha dissuaso gli uomini. Tutti hanno letto quelle risposte e credono più ad esse, perché trovano il poeta più intelligibile della natura. Ma un giorno, forse, si vedrà che qui fu il limite della sua grandezza. Quell'amante gli venne imposta, e lui non la resse. Cosa vuol dire, che non abbia potuto corrispondere? Un amore simile non ha bisogno d'essere corrisposto, ha in sé l'appello e la risposta; si esaudisce da sé. Ma il poeta avrebbe dovuto umiliarsi davanti ad esso in tutta la sua imponenza, e scrivere con due mani quello che esso dettava, come Giovanni a Pathmos, in ginocchio. Non c'era alternativa di fronte a quella voce "che adempiva all'ufficio degli angeli"; che era venuta per avvolgerlo e rapirlo nell'eterno.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

The harvest moon

Forse, se tu gustassi anco una volta

Forse, se tu gustassi anco una volta 
la millesima parte de le gioie 
che gusta un cor amato riamando, 
diresti, ripentita, sospirando: 
"Perduto è tutto il tempo
che in amar non si spende."


(Torquato Tasso; "Aminta")

domenica 20 ottobre 2024

...esisteva soltanto la mia solitudine

(...) sapevo che fuori tutto continuava con la stessa indifferenza, che anche fuori esisteva soltanto la mia solitudine. La solitudine che m'ero addossato, d'una grandezza sproporzionata al mio cuore.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

Doveva essere una di quelle ore mattutine

Doveva essere una di quelle ore mattutine nuove e riposanti come ce ne sono in luglio, in cui si manifesta dappertutto come una gioia irriflessa. Da milioni di minimi, insopprimibili movimenti, si forma, a mosaico, l'esistenza più convinta; le cose vibrano sciolte nell'aria, compenetrate le une alle altre, e la loro freschezza schiarisce l'ombra e dà al sole una luce lieve, spirituale. Allora nel giardino non ci sono più elementi essenziali; tutto è dappertutto, e bisognerebbe essere in tutto, per non perdere nulla.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

Lo aprii: era vuoto

Ancora ricordo con precisione come un giorno, tanto tempo fa, trovai in casa un astuccio da gioielli: largo due mani, a forma di ventaglio, di marrocchino verde scuro, con una ghirlanda di fiori impressa tutt'intorno. Lo aprii: era vuoto. Questo posso dirlo adesso, dopo tanto tempo. Ma allora, quando l'ebbi aperto, vidi solo di cosa era fatto quel vuoto: di velluto, di una piccola prominenza di velluto chiaro, non più fresco; del solco per il gioiello che vi si perdeva, vuoto, più chiaro, quanto un'ombra di malinconia.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

...l'effetto di un esercizio costante e doloroso

Se riesci a credermi capace di sentimenti, certo puoi immaginare che ho sofferto ora. La compostezza con cui mi sono indotta a considerare la questione, la consolazione che mi sforzo di ammettere, sono l'effetto di un esercizio costante e doloroso (...)


(Jane Austen; "Ragione e sentimento")

giovedì 26 settembre 2024

Vuoi, rosa, essere l'ardente compagna

Vuoi, rosa, essere l'ardente compagna
delle nostre passioni di ora?
O è forse il ricordo che più ti conquista 
quando una gioia riaffiora?

Spesso ti ho vista, gioiosa e secca, 
- ogni petalo un sudario - 
dentro scrigni odorosi, accanto ad una ciocca,
o dentro un libro amato da rileggere soli.

-----

Préfère-tu, rose, être l'ardente compagne 
de nos transports présents?
Est-ce le souvenir qui davantage te gagne 
lorsqu'un bonheur se reprend?

Tant de fois je t'ai vue, heureuse et sèche,
- chaque pétale un linceul - 
dans un coffret odorant, à côté d'une mèche,
ou dans un livre aimé qu'on relira seul.


(Rainer Maria Rilke; "Le rose")

mercoledì 25 settembre 2024

Il solitario vive in un deserto sconfinato di terrificante bellezza

Il solitario vive in un deserto sconfinato di terrificante bellezza. Guarda la totalità e il significato interiore. La molteplicità delle cose esistenti gli è odiosa quando gli è vicina. La guarda da lontano nella sua totalità. Perciò gli appare inondata di argenteo splendore, di pace e bellezza. Ciò che gli è vicino dev'essere semplice e ingenuo, perché la molteplicità e la complessità delle cose quando sono vicine lacerano e infrangono l'argenteo splendore. Intorno a lui non deve aleggiare caligine dell'aria, né foschia o nebbia alcuna, altrimenti non può osservare la molteplicità delle cose nella totalità. Per questo il solitario ama sopra ogni cosa il deserto, ove tutto ciò che è prossimo è semplice e nulla di torbido o sfocato si frappone tra lui e le cose lontane.


(Carl Gustav Jung; "Il libro rosso")

A poco a poco nacque nel mio petto

A poco a poco nacque nel mio petto, 
non so da qual radice, 
com'erba suol che per se stessa germini,
un incognito affetto
che mi fea desiare 
d'esser sempre presente 
a la mia bella Silvia; 
e bevea da' suoi lumi
un'estranea dolcezza,
che lasciava nel fine 
un non so che d'amaro; 
sospirava sovente, e non sapeva 
la cagion de' sospiri
Così fui prima amante ch'intendessi 
che cosa fosse amore.


(Torquato Tasso; "Aminta")

giovedì 5 settembre 2024

In un ovale di grazia indescrivibile mettete degli occhi scuri

Il volto, meraviglioso, era oggetto di una civetteria speciale. Era tutto piccolino e sua madre, come direbbe de Musset, sembrava averlo fatto con particolare cura.
In un ovale di grazia indescrivibile mettete degli occhi scuri disegnati da sopracciglia che formano un arco così puro da sembrare dipinto; velate gli occhi con lunghe ciglia che, quando si abbassano, ombreggiano il colore rosato delle guance; tratteggiate un naso sottile, dritto, simpatico, con le narici leggermente dilatate da un'ardente aspirazione alla vita sensuale; disegnate una bocca regolare le cui labbra si aprono con grazia su denti bianchi come latte; colorate la pelle di quel velluto che ricopre le pesche che nessuna mano ha mai toccato, e avrete l'insieme di quell'incantevole volto.
I capelli neri come il carbone, ondulati in modo naturale o meno, si aprivano sulla fronte in due grandi frange che si perdevano dietro la testa, mostrando un lembo delle orecchie dove brillavano due diamanti il cui valore era tra i quattro e i cinquemila franchi ciascuno.
Come la sua vita ardente lasciasse al viso di Marguerite l'espressione verginale, addirittura infantile che lo caratterizzava, è qualcosa che siamo costretti a constatare senza però capirlo.


(Alexandre Dumas; "La signora delle camelie")

Voi sapete cosa significhi amare una donna

Sarebbe complicato esporvi i particolari della nostra nuova vita. Era fatta di una serie di puerilità, incantevoli per noi, ma insignificanti per coloro ai quali le descrivessi. Voi sapete cosa significhi amare una donna, sapete come le giornate diventino brevi e con quale amorosa pigrizia ci si lasci scivolare verso l'indomani. Voi non ignorate l'oblio di ogni cosa che nasce da un amore violento, fiducioso e reciproco. Qualsiasi essere nel creato che non sia la donna amata sembra inutile. Si rimpiange di aver già buttato parti del proprio cuore ad altre donne e non si concepisce neppure la possibilità di stringere una mano diversa da quella tenuta fra le nostre. Il cervello non tollera lavoro né ricordo, insomma niente di ciò che potrebbe distrarlo dall'unico pensiero che gli torna in mente di continuo. Ogni giorno si scopre nella propria amante un nuovo incanto, una voluttà sconosciuta.
La vita non è più che il ripetuto appagamento di un continuo desiderio, l'anima non è più che la vestale incaricata di alimentare il fuoco sacro dell'amore.
Giunta la notte, andavamo spesso a sederci nel boschetto che dominava la casa. Laggiù ascoltavamo le gioiose melodie della sera, entrambi pensando all'avvicinarsi dell'ora che ci avrebbe lasciati, fino all'indomani, l'uno nelle braccia dell'altra. A volte restavamo a letto tutto il giorno, senza nemmeno permettere al sole di entrare in camera. Le tende erano ermeticamente chiuse e, per un momento, il mondo di fuori per noi si fermava. Solo a Nanine era concesso di aprire la porta, ma unicamente per portarci i pasti; mangiavamo senza alzarci, interrompendoci di continuo con risa e scherzi. A questo seguiva un breve sonno, perché, immergendoci nel nostro amore, eravamo come due sommozzatori ostinati che ritornano in superficie solo per riprendere fiato.


(Alexandre Dumas; "La signora delle camelie")

Marguerite assisteva a tutte le prime

 Marguerite assisteva a tutte le prime e trascorreva ogni sera a teatro o al ballo. A ogni commedia nuova si era certi di vederla, insieme a tre cose che non l'abbandonavano mai e che occupavano sempre il parapetto del palco in platea: l'occhialino, un sacchettino di caramelle e un mazzolino di camelie. Per venticinque giorni al mese le camelie erano bianche, e per cinque erano rosse; non si è mai conosciuta la ragione di tale varietà di colore che io segnalo senza poterla spiegare e che gli abituali frequentatori dei teatri dove essa si recava più di frequente e i suoi amici avevano notato come me. Non si era mai vista Marguerite con fiori diversi dalle camelie. Ecco il motivo per il quale la signora Barjon, la sua fioraia, aveva finito per chiamarla la Signora delle Camelie, e il soprannome le era rimasto.


(Alexandre Dumas; "La signora delle camelie")

Finestra su Saint-German-des-Prés

...non sta a noi cambiare noi stessi?

Ma ora che tanto sta cambiando, non sta a noi cambiare noi stessi? Non potremmo provare a evolverci appena, addossandoci lentamente, a poco a poco, la nostra parte di lavoro nell'amore? Di esso ci è stata risparmiata ogni fatica, e così ci è scivolato tra le distrazioni, come a volte nel cassetto dei giocattoli d'un bambino cade un pezzo di trina autentica che prima piace, poi non piace più, e infine rimane tra gli oggetti rotti e disfatti, peggiore di ogni altro. Guastati dal piacere superficiale, come tutti i dilettanti, abbiamo fama di maestri. Ma che accadrebbe se disprezzassimo i nostri successi, se cominciassimo a imparare dal principio il lavoro dell'amore, che altri ha sempre fatto per noi? Se ce ne andassimo e diventassimo apprendisti, ora che cambiano tante cose?


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

giovedì 20 giugno 2024

Ecco giorni in cui tutto intorno mi è luce

Cosa non può una piccola luna. Ecco giorni in cui tutto intorno mi è luce, leggero, appena accennato nell'aria luminosa, e tuttavia nitido. Quello che è più vicino ha già una tonalità remota, è sottratto o soltanto indicato, non offerto;  quanto ha rapporto con lo spazio: il fiume, i ponti, le vie lunghe e le piazze che si spendono prodighe, tutto questo lo spazio l'ha preso dietro di sé, è dipinto su di esso come su seta. Non è possibile dire, allora, cosa può essere una carrozza verdechiaro sul Pont-Neuf o un rosso infrenabile o anche soltanto un manifesto sul muro spartifuoco d'un gruppo di case grigioperla. Tutto è semplificato, ridotto a pochi piani chiari e precisi come il viso in un ritratto di Manet. E nulla è minuscolo o superfluo. I bouquinistes aprono sul quai i loro cassoni e il giallo fresco o consunto dei libri, il bruno violaceo delle legature, il verde più grande di una cartella: tutto è giusto, ha valore, partecipa e forma molteplicità in cui nulla manca.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

Sedevo là come dissolto

Dovevo avere allora dodici, al più tredici anni. Mio padre m'aveva portato a Urnekloster. Non so cosa lo inducesse a visitare suo suocero. Erano anni che i due non si vedevano, dalla morte della mamma, e mio padre non era ancora mai stato nel vecchio castello in cui il conte Brahe s'era ritirato soltanto tardi. In seguito non ho più rivisto la dimora singolare che, con la morte del nonno, passò in mano di estranei. Come la ritrovo nel mio ricordo infantilmente elaborato, non è un edificio nella sua interezza; dentro di me è tutto diviso: là una stanza, qua una stanza e qui un tratto di corridoio che non unisce queste due stanze ma s'è conservato per sé, come un frammento. In questo modo tutto è sparpagliato dentro di me - le camere, le scale che si adagiavano con tanta lentezza, altre scale strette, a spirale, nel cui buio si avanzava come il sangue nelle vene; le camere delle torri, i balconi sospesi in alto, le altane inattese in cui si finiva, spinti da una porticina: tutto ciò è ancora dentro di me e non cesserà mai di essere dentro di me. È come se l'immagine di questa casa fosse caduta in me da un'altezza incalcolabile e fosse andata in frantumi sul mio fondo.
Conservata integra nel mio cuore, mi pare, è soltanto la sala in cui eravamo soliti raccoglierci per cena, ogni sera alle sette. Non vidi mai la stanza di giorno, non ricordo neppure se aveva finestre e dove queste davano; ogni volta che la famiglia entrava, le candele bruciavano su candelabri massicci; e dopo qualche minuto si perdeva cognizione del tempo e di tutto quello che s'era visto fuori. Quell'ambiente alto, credo a volta, era più forte di tutto; con la sua altezza che s'abbuiava, con i suoi angoli mai del tutto rischiarati, vuotava d'ogni immagine, senza dare niente da sostituire. Sedevo là come dissolto: privo di volontà, di coscienza, di piacere, di difesa. Ero come uno spazio vuoto. Ricordo che quello stato di annientamento mi provocò sulle prime quasi una nausea, una specie di mal di mare che superai solo allungando una gamba fino a raggiungere col piede il ginocchio di mio padre, seduto di fronte a me. Solo più tardi mi colpì il fatto che egli comprendesse o almeno tollerasse quel comportamento singolare, sebbene i nostri rapporti fossero quasi freddi, tali da non giustificare un simile comportamento. Era pertanto quel leggero contatto a darmi la forza d'arrivare in fondo ai lunghi pranzi. E dopo alcune settimane di sopportazione convulsa, con la capacità di adattamento quasi illimitata dei ragazzi, m'ero così abituato al carattere inquietante di quelle riunioni, che non mi costava più sforzo alcuno restare a tavola due ore; il tempo trascorreva, anzi, in modo relativamente rapido, perché mi occupavo a osservare i presenti.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

sabato 1 giugno 2024

...mi sentivo interiormente calmo e rassicurato

Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato. Se mi fossi fermato alle emozioni, allora forse sarei stato distrutto dai contenuti dell'inconscio. Forse avrei anche potuto scrollarmele di dosso, ma in tal caso sarei caduto inesorabilmente in una nevrosi, e alla fine i contenuti mi avrebbero distrutto ugualmente. Il mio esperimento m'insegnò quanto possa essere di aiuto - da un punto di vista terapeutico - scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni.


(Carl Gustav Jung; "Ricordi, sogni, riflessioni")

...quel divino stato d'innocenza che era meglio non disturbare

Ritenevo che, finché conoscevo così poco delle cose reali, non fosse il caso di riflettere su di esse: chiunque poteva fantasticare, ma la vera conoscenza era tutt'altra questione. I miei genitori mi permisero di abbonarmi a un periodico scientifico che leggevo con appassionato interesse. Mi misi alla ricerca, per farne collezione, di tutti i fossili che fosse possibile trovare sulle nostre montagne del Giura, e di tutti i minerali possibili, e anche di insetti e di ossa di mammouth e umane (le ossa di mammouth le trovai nelle cave di ghiaia della pianura renana, le ossa umane in una tomba comune, presso Hüningen, del 1811). Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dirne la biologia era interessante, ma non era l'essenziale: che cosa poi fosse l'essenziale, non me lo sapevo spiegare. Per esempio, in che rapporto erano le piante con la religione cristiana o con la negazione della volontà. Ecco qualcosa che non riuscivo a penetrare; ma certamente esse partecipavano di quel divino stato d'innocenza che era meglio non disturbare.


(Carl Gustav Jung; "Ricordi, sogni, riflessioni")

Impulsi irresistibili lo afferrarono

(...) il richiamo che sempre risuonava nelle profondità della foresta. Quell'appello lo colmava di una grande irrequietudine e di strani desideri, provocava in lui una vaga, dolce felicità, ed egli si rendeva conto di selvaggi desideri e impulsi per cose che non conosceva. Qualche volta seguiva il richiamo nella foresta, cercandolo come se fosse una cosa tangibile, latrando dolcemente o a sfida, a seconda dell'umore. Cacciava il naso nel fresco muschio del bosco, o nella nera terra dove crescevano alte erbe, e fiutava con gioia i grassi odori del terreno; oppure stava acquattato per ore, come se si nascondesse, dietro i tronchi ricoperti di funghi o gli alberi abbattuti, con gli occhi e gli orecchi tesi a tutto ciò che si muoveva o risuonava intorno a lui. Forse, standosene così, sperava di sorprendere quel richiamo che non riusciva a capire. Ma non sapeva perché facesse tutto ciò. Era costretto a farlo, ma non poteva afferrarlo con il pensiero.
Impulsi irresistibili lo afferrarono. Se ne stava magari tranquillo nell'accampamento, sonnecchiando oziosamente nel caldo pomeriggio, quando a un tratto ergeva la testa con le orecchie dritte, tutte intese ad ascoltare, e poi balzava in piedi e si slanciava avanti, sempre avanti, per ore, attraverso gli intercolunni della foresta e le aperte radure dove crescevano folti i canneti. Gli piaceva correre nei letti asciutti dei torrenti, spiare la vita degli uccelli del bosco. A volte per un giorno intero se ne stava  sdraiato nel sottobosco dove poteva osservare le pernici che andavano in su e in giù becchettando. Ma soprattutto gli piaceva correre nel cupo crepuscolo delle mezzanotti estive, ascoltando i soffocati e sonnolenti sussurri della foresta, interpretando segni e suoni così come un uomo può leggere un libro, e cercando quella misteriosa cosa che continuava, continuava a chiamarlo, nel sogno e nella veglia, ad ogni ora, perché la raggiungesse.
Una notte balzò dal sonno sussultando, l'occhio intento, le nari frementi, la criniera irta in onde fuggenti. Dalla foresta giungeva il richiamo (o per lo meno una nota di esso, ché il richiamo aveva molte note) distinto e definito come non mai: un lungo ululato, simile a un qualsiasi suono emesso da un cane eschimese, e tuttavia diverso. Ed egli lo riconobbe in quell'antico clima familiare come suono già udito. Balzò attraverso il campo addormentato, e rapido e silenzioso si precipitò tra i boschi. Via via che si avvicinava al grido rallentava la sua corsa, divenendo cauto in ogni movimento, finché giunse a una radura fra gli alberi e, spiando, vide, eretto sulle anche, il muso puntato al cielo, un lungo e sottile lupo dei boschi.


(Jack London; "Il richiamo della foresta")

giovedì 18 aprile 2024

Così imperioso era il richiamo

Era più vecchio dei giorni che aveva vissuto, dei respiri che aveva respirato. Riuniva il passato al presente, e l'eternità dietro di lui palpitava in lui in un ritmo potente insieme al quale egli oscillava al pari delle maree e delle stagioni. Sedeva presso il fuoco di John Thornton: cane dal petto largo, dalle zanne bianche, dal lungo pelo; ma dietro di lui vi erano le ombre di cani di ogni specie, metà lupi e lupi selvaggi, che lo incalzavano e lo sollecitavano assaporando il cibo che lui mangiava, assetati dell'acqua che beveva, fiutando con lui il vento, ascoltando con lui e sussurrandogli i suoni della vita selvaggia nella foresta, suggerendogli i movimenti, dirigendo le sue azioni, sdraiandosi con lui a dormire quando lui si accovacciava, sognando con lui e su di lui, divenendo essi stessi l'oggetto dei suoi sogni.
Così imperioso era il richiamo di quelle ombre, che di giorno in giorno il genere umano e le sue pretese si allontanavano da lui. Nel profondo della foresta risuonava un invito, e ogni volta che egli l'udiva, misteriosamente vibrante e lusinghiero, si sentiva costretto a volgere il dorso al fuoco e alla terra battuta intorno a esso per immergersi nella foresta, sempre avanti, non sapeva dove né perché; né si domandava il dove o il perché, tanto impressionante risuonava il richiamo nel profondo della foresta.


(Jack London; "Il richiamo della foresta")

...sarebbe sempre solo una primavera sterminata

E se gli alberi levassero i loro fiori più in alto di tutti i monti, sarebbe sempre solo una primavera sterminata.


(Rainer Maria Rilke; "Diario fiorentino")

Appoggiandoti, fresca chiara

Appoggiandoti, fresca chiara 
rosa, contro il mio occhio chiuso, - 
si direbbero mille palpebre
l'una sull'altra 

contro la mia calda. 
Mille sonni contro la mia finta
che mi fa vagare 
nell'odoroso labirinto.

-----

T'appuyant, fraîche claire 
rose, contre mon oeil fermé, - 
on dirait mille paupières 
superposées

contre la mienne chaude. 
Mille sommeils contre ma feinte 
sous laquelle je rôde 
dans l'odorant labyrinthe.


(Rainer Maria Rilke; "Le rose")

venerdì 5 aprile 2024

Rientrerò nel tempio

Ifigenia: "(...)Rientrerò nel tempio, in questo santuario della dea che è la mia dimora".


(Euripide; "Ifigenia in Tauride")

Ora sono davvero me stesso!

Pressappoco a quel tempo ebbi un'altra decisiva esperienza vitale. Percorrevo, per andare a scuola, la lunga strada da Kleinhüningen, dove abitavamo, a Basilea, quando, improvvisamente ebbi - per un breve momento - la straordinaria impressione di essere appena emerso da una densa nuvola. Tutt'a un tratto mi dissi: Ora sono davvero me stesso! Era come se una coltre di nebbia fosse alle mie spalle, e dietro di essa non ci fosse ancora un "Io". In quel momento io nacqui a me stesso. Prima ero esistito, certamente, ma avevo solo subito gli avvenimenti: adesso ero io stesso l'avvenimento che mi capitava. Ora ero certo di essere me stesso, ero certo di esistere. Prima ero sempre stato coatto a fare: adesso ero io a volere. Questa esperienza vitale mi parve terribilmente decisiva e nuova: ormai c'era "autorità" in me.


(Carl Gustav Jung; "Ricordi, sogni, riflessioni")

Au bord de la mer

...e tutto mi pare meraviglioso

I miei ricordi risalgono al secondo o al terzo anno di vita. Ricordo la canonica, il giardino, la lavanderia, la chiesa, il castello, le cascate, il piccolo castello di Wörth e la fattoria del sagrestano: ricordi frammentari, slegati, senza un nesso apparente, fluttuanti in un mare di incertezza.
Mi si presenta un ricordo, che forse è il primo della mia vita, e infatti è solo un'immagine indistinta. Sono nella carrozzina, all'ombra di un albero, ed è una bella giornata estiva, calda, il cielo è azzurro, e la luce dorata del sole dardeggia attraverso il fogliame; il mantice della carrozzina è alzato, mi sono svegliato da poco, e la bellezza sfolgorante del giorno mi dà un indescrivibile senso di benessere; vedo il sole che splende attraverso le foglie e i fiori dei cespugli, e tutto mi pare meraviglioso, pieno di colori, splendido. 
Un altro ricordo: sto nella sala da pranzo, a ponente della casa, seduto su un seggiolone, e col cucchiaio prendo pane e latte: il latte ha un gusto piacevole e un caratteristico odore. Fu quella la prima volta che imparai a conoscere l'odore del latte, e anzi fu quello il momento in cui, per così dire, divenni cosciente di che cos'è un odore.


(Carl Gustav Jung; "Ricordi, sogni, riflessioni")

giovedì 21 marzo 2024

...uno dei primi canti del giovane mondo

Qua e là Buck incontrò dei cani del Sud, ma per la maggior parte erano eschimesi della razza dei lupi selvaggi. Ogni notte, regolarmente, alle nove, alle dodici e alle tre, essi cantavano il loro canto notturno, un canto misterioso e strano a cui Buck si univa con gioia. Quando l'aurora boreale si illuminava fredda nell'alto, o le stelle saltavano nella danza del gelo, e la terra era intorbidita e assiderata sotto il suo manto di neve, questo canto degli eschimesi avrebbe potuto essere la sfida della vita, solo che era modulato in tono minore con lunghi lamenti e singhiozzi, e sembrava quasi la supplica della vita, la voce della fatica di esistere. Era un antico canto, antico quanto la stessa razza, uno dei primi canti del giovane mondo, in un periodo in cui le canzoni erano tristi. Era avvolto nel dolore di generazioni senza numero, un lamento che commuoveva Buck nel profondo. Quando egli si lamentava e singhiozzava, vi era in lui la pena del vivere che era stata l'antica pena dei suoi padri selvaggi, e insieme la paura e il mistero del freddo e del buio che erano stati la loro paura e il loro mistero. E il fatto che egli ne fosse così commosso, indicava l'intensità con cui ascoltava, attraverso la lontananza dei secoli dei primi fuochi e dei primi tetti, i rudi inizi della vita nell'età dei ruggiti.


(Jack London; "Il richiamo della foresta")

Amiche carissime

Ifigenia: "Amiche carissime, io guardo a voi perché da voi dipende o il successo del piano o che io resti annichilita al tutto, per sempre spogliata e della patria e del fratello amato e della dolce sorella mia. Voglio mettere in primo piano questo punto: io e voi siamo donne, e tutte le donne formano come un gruppo solidale, e quindi sono fermissime nel portarsi reciproco aiuto. Mantenete il silenzio, collaborate alla nostra fuga! Che cosa c'è di più bello di una lingua fidata?"


(Euripide; "Ifigenia in Tauride")