Quanto piccolo a quel tempo dovessi ancora essere lo vedo nel fatto che, per arrivare bene al tavolo su cui disegnavo, stavo inginocchiato sulla sedia. Era sera, d'inverno, se non sbaglio, nell'appartamento di città. Il tavolo si trovava nella mia camera, tra le finestre, e nella stanza non c'era altra lampada se non quella che illuminava i miei fogli e il libro di Mademoiselle; Mademoiselle, infatti, mi sedeva vicino, appena dietro, e leggeva. Quando leggeva era molto lontana, non so se fosse nel libro; poteva leggere per ore voltando raramente le pagine, e avevo l'impressione che sotto il suo sguardo le pagine diventassero sempre più piene, quasi vi vedesse parole in più, certe precise parole che non c'erano e di cui aveva bisogno. Immaginavo questo, mentre disegnavo. Disegnavo adagio, senza un'intenzione molto precisa, e quando non sapevo andare avanti, guardavo l'insieme con il capo piegato un po' a destra: in questo modo mi accorgevo sempre rapidamente di quanto ancora mancava. Erano ufficiali a cavallo che entravano nella battaglia o che ci si trovavano in mezzo, cosa, questa, molto più semplice, perché bastava fare quasi soltanto il fumo che avvolgeva tutto. Maman, veramente, sosteneva sempre che erano isole quelle che coloravo; isole con grandi alberi e un castello e una scalinata e fiori sulla balaustra che si specchiavano nell'acqua. Ma credo che lo inventasse o che debba essere stato più tardi.
Sta di fatto che quella sera disegnavo un cavaliere, un unico, ben evidente cavaliere, su un cavallo curiosamente bardato. Diventava così variopinto che dovevo cambiare spesso matita, ma soprattutto era il rosso, cui di continuo ricorrevo, ad essere preso in considerazione. Ne avevo appunto ancora bisogno: quando (mi sembra di vederlo) rotolò obliquamente fino all'orlo del foglio illuminato, prima che potessi impedirlo cadde davanti a me e scomparve. Mi occorreva proprio subito, ed era molto sgradevole cercarlo a gattoni. Maldestro com'ero, arrivai in basso solo dopo manovre d'ogni genere; le gambe mi parevano troppo lunghe, non potevo tirarle fuori di sotto il corpo; le membra, stando inginocchiato troppo a lungo, s'erano intorpidite, non sapevo più che cosa appartenesse a me e cosa alla seggiola. Alla fine, però, fui in basso, un po' frastornato, e mi trovai su una pelliccia che da sotto il tavolo arrivava sino al muro. Ma a questo punto si presentò una nuova difficoltà. Regolati sulla luce di sopra e ancora entusiasti dei colori sul foglio bianco, i miei occhi non riuscivano a distinguere nulla sotto il tavolo, dove il nero mi parve così compatto che avevo paura di urtarvi. Mi rimisi dunque alla mia sensibilità e in ginocchio, appoggiato sulla mano sinistra, presi a pettinare con la destra il tappeto fresco, dai lunghi peli, che sentivo tanto amichevole; della matita, però, nessuna traccia. Pensai che stavo perdendo molto tempo ed ero sul punto di chiamare Mademoiselle, pregandola di reggermi la lampada, quando mi accorsi che ai miei occhi, involontariamente aguzzati, il buio diventava sempre più trasparente. Potevo già distinguere sul fondo la parete, che terminava con uno zoccolo chiaro; mi orientavo attraverso le gambe del tavolo; riconoscevo soprattutto la mia mano che, con le dita divaricate, si muoveva là tutta sola, come un animale acquatico, e cercava sul fondo. La guardavo, ricordo, quasi curioso; mi pareva sapesse cose che non le avevo insegnato, mentre testava là sotto in modo tanto arbitrario, con movimenti che non le avevo mai notato. La seguivo mentre avanzava, m'interessava, ero pronto a tutto. Ma come sarei dovuto essere preparato al fatto che a un tratto dalla parete le venne incontro un'altra mano, più grande, d'una magrezza insolita, quale non avevo mai veduto. Quella veniva avanti dall'altra parte cercando allo stesso modo, e le due mani aperte avanzavano cieche una contro l'altra. La mia curiosità non si era ancora esaurita, ma d'improvviso finì e ci fu solo raccapriccio. Sentii che una delle mani m'apparteneva, e che in quel momento si abbandonava a qualcosa d'irreparabile. Con tutto il diritto che avevo su di essa la trattenni e la ritirai adagio, distesa, mentre con gli occhi non lasciavo l'altra, che continuava a cercare. Capii che non avrebbe smesso, non so dire come mi risollevai. Mi accasciai sulla seggiola, i denti mi battevano, e avevo sul viso così poco sangue che credetti mi si fosse sbiancato l'azzurro degli occhi. Mademoiselle - volli dire e non potei, ma lei si spaventò da sola, buttò via il libro, si inginocchiò vicino alla sedia e gridò il mio nome; forse mi scosse. Ma io ero pienamente cosciente. Inghiottii più volte: perché volevo raccontarle la cosa.
Ma come? mi concentrai in modo indescrivibile, ma la cosa non si poteva esprimere in modo che uno la capisse. Se per quell'evento, c'erano parole, ero troppo piccolo per trovarle. E d'un tratto mi assalì la paura che, scavalcata la mia età, potessero d'un tratto presentarsi, quelle parole, e il fatto di doverle allora dire mi parve più terribile di tutto. Rivivere la realtà di là sotto, mutata, dal principio alla fine; udirmi mentre l'ammettevo, non avevo più forza di farlo.
Naturalmente è una fantasia pensare adesso che allora già sentissi qualcosa di nuovo entrare nella mia vita, proprio nella mia, una cosa con cui sarei dovuto andare da solo, per sempre. Mi vedo disteso, sveglio nel mio lettino con le sponde, in qualche modo prevedere vagamente che la mia vita sarebbe stata così: piena di cose strane, che sono destinate a uno solo, e che non si lasciano dire. Certo è che a poco a poco crebbe in me un triste e pesante orgoglio. Mi figuravo come sarei andato per il mondo, l'animo pieno di vita segreta, taciturno.
(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")
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