giovedì 27 agosto 2015

Il lettore ideale è quello che sente

-Torino, 7 giugno 1907

Concedetemi, cortese Amico, ch'io venga a disturbare la vostra solitudine per dirvi grazie di tutto il bene che pensate di me. Temo anzi che troppo bene Voi pensiate, molto più ch'io non meriti; ma giova lasciarsi blandire da una qualche gentile voce di lusinga. Il lettore ideale è quello che sente, che quasi s'impossessa dell'anima di chi scrive, e Voi siete di questi, come lo fu prima Dino Mantovani, come lo fu privatamente Ada Negri (...) Ma quanto son cari quelli che intendono! Mi giungono quasi ogni giorno brani di critica, sparsi qua e là pei molti giornalucoli della penisola, i quali mi farebbero piangere se... non mi facessero ridere. Gente che vede nella poesia versi e rime allineati in bell'ordine come soldati a una rivista, da passarsi in rassegna... E guai se un bottoncino della tunica luccica meno di un altro! (...) Ieri ho passato il pomeriggio alle corse annoiandomi mortalmente; oggi sento rialzarmi gli spiriti discorrendo con Voi. Mi duole che alla 'Cultura' non si sia mai conversato un poco assieme. La fatalità ha sempre voluto che i giovani ch'io intuivo più intelligenti e colti mi rimanessero sempre là dentro, quasi sconosciuti. Io ricordo di avervi notato la prima volta anni sono al 'Vittorio' durante un concerto di Kubelik. Potrei ingannarmi ma dovevate essere Voi: vestivate di color avana e portavate i capelli alquanto lunghi. Dopo, v’incontrai alla 'Cultura' e, scusate, mi diveniste antipatico. Una sera dell'inverno scorso, specialmente, avete irritato alquanto i miei nervi, che per disgrazia, sono piuttosto sensibili. Parlavate con una Signorina e con un giovane, di poesia, di letterati e di libri con un tono di voce così alto e noncurante di me che leggevo in disparte, da sembrarmi quasi un’ostentazione e una provocazione. Questa mi parve ancora accrescersi quando Voi porgeste loro un manoscritto chiedendo un giudizio sui versi vostri e spiando avido sulle loro fisionomie l’effetto della lettura. Siccome io sono orgogliosa ebbi la presunzione di pensare, allora, ch'io sarei stata a Voi miglior giudice, ma mi alzai di scatto ed uscii lasciandovi a discorrere in pace. Cercai più tardi nel vostro libro quei versi e compresi ch'essi erano quelli intitolati 'Il Responso'. Avevate descritto così bene l’Amica vostra, il levriere, il pugnale, e forse quei due a cui parlavate v’avevano compreso assai meno di me che non dovevo udire. (...) Io v’auguro che il mare e la montagna vi risanino, poiché, se un giovane poeta alquanto infermo è una persona tanto interessante, meglio giova districarsi dai languori romantici e viver bene la vita un poco paganamente. Anche per me, vedete, sorella di Gaspara - tanto che Ada Negri crede a un caso di metempsicosi - anche per me dovrebbe giungere la bella serenità, la buona guarigione che alla mia antica sorella furono ignote. Ed io le aspetto, sapete. Non vorrei rassomigliare in tutto e per tutto, in vita ed in morte alla infelice amante del conte di Collalto. Voi credete con tutti ch'io l’abbia avuta tanto famigliare, tanto vicina quella povera veneziana. Invece no: la conosco, le voglio bene in qualche suo verso, ma quell'aria di famiglia - diciamo così - io l’ho presa da un altro più antico antenato, da messer Francesco Petrarca. Un anno durante le vacanze estive, io ho passato mesi e mesi in campagna sola con lui, ripassando verso per verso tutto il Canzoniere per cercarvi il colore degli occhi di madonna Laura. (...) Se troverete nella vostra solitudine qualche momento di tedio, ingannatelo bene o male scrivendomi: vi conosco poco ma vi ritengo un amico spirituale e mi sembrate una conoscenza antica, tanto antica da averne dimenticato l’origine.


(Amalia Guglielminetti, Lettera a Guido Gozzano)

lunedì 24 agosto 2015

Alle volte è dentro di noi qualcosa

Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa

la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.


(Pier Paolo Pasolini)

The Veil


domenica 23 agosto 2015

Sulle scale

Scendevo quella maledetta scala;
tu entravi dalla porta; per un attimo
vidi il tuo viso ignoto e mi vedesti.
Poi, per non esser rivisto, mi nascosi, e tu
passasti in fretta, nascondendoti il viso,
e t’infilasti in quella maledetta casa
dove non avresti trovato il piacere, come anch'io del resto.

Pure, l’amore che volevi l’avevo io da darti;
l’amore che volevo - lo dissero i tuoi occhi
sciupati e diffidenti - l'avevi tu da darmi.
Si sentirono, si cercarono i nostri corpi;
compresero la pelle e il sangue.

Ma ci nascondemmo, tutti e due sconvolti.

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Την άτιµη την σκάλα σαν κατέβαινα,
από την πόρτα έµπαινες, και µια στιγµή
είδα το άγνωστό σου πρόσωπο και µε είδες.
Έπειτα κρύφθηκα να µη µε ξαναδείς, και συ
πέρασες γρήγορα το πρόσωπό σου κρύβοντας,
και χώθηκες στο άτιµο το σπίτι µέσα
όπου την ηδονή δεν θα ’βρες, καθώς δεν την βρήκα.

Κι όµως τον έρωτα που ήθελες τον είχα να σ’ τον δώσω·
τον έρωτα που ήθελα – τα µάτια σου µε το ’παν
τα κουρασµένα καί ύποπτα – είχες να µε τον δώσεις.
Τα σώµατά µας αισθανθήκαν και γυρεύονταν·
το αίµα και το δέρµα µας ενόησαν.

Αλλά κρυφθήκαµε κ’ οι δυο µας ταραγµένοι.


(Konstantinos Kavafis)

Noi della seconda metà del XX secolo

Noi della seconda metà del XX secolo
che disintegriamo l'atomo
che conquistiamo la luna
ci vergogniamo
dei teneri gesti
degli sguardi amorevoli
dei caldi sorrisi

Quando soffriamo
storciamo noncuranti la bocca

Quando arriva l'amore
alziamo sprezzanti le spalle

Forti cinici
con gli occhi ironicamente socchiusi

Soltanto a tarda notte
con le tende ermeticamente tirate
ci mordiamo le labbra dal dolore
moriamo d'amore


(Malgorzata Hillar)

Preghiera

Signore, tu lo senti
ch'io non ho voce più
per ridire
il tuo canto segreto.
Signore, tu lo vedi
ch'io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue
consolatrici.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te
ch'io riviva.

Perché tu sai, Signore,
che in un tempo lontano
anch'io tenni nel cuore
tutto un lago, un grande lago,
specchio di Te.
Ma tutta l'acqua mi fu bevuta,
o Dio,
ed ora dentro il cuore
ho una caverna vuota
cieca di Te.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te,
ch'io riviva.


(Antonia Pozzi)

sabato 15 agosto 2015

Kamakura

Kamakura:
di chi sei stata un tempo
camelia di mille anni?

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kamakura ya
mukashi donata no
chiyo tsubaki


(Kobayashi Issa)

Ne la sera dei fuochi de la festa d'estate

Ne la sera dei fuochi de la festa d'estate,
ne la luce deliziosa e bianca,
quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio
e i nostri occhi erano stanchi de le girandole di fuoco,
de le stelle multicolori che avevano lasciato un odore pirico,
una vaga gravezza rossa nell'aria,
e il camminare accanto ci aveva illanguiditi
esaltandoci di una nostra troppo diversa bellezza,
lei fine e bruna, pura negli occhi e nel viso,
perduto il barbaglio della collana dal collo ignudo,
camminava ora a tratti inesperta stingendo il ventaglio.
Fu attratta verso la baracca:
la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa,
ed io seguii il suo pallore segnato sulla sua fronte
dalla frangia notturna dei suoi capelli.
Entrammo. Dei visi bruni di autocrati,
rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa,
si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce.
E guardammo le vedute. Tutto era di un'irrealtà spettrale.
C'erano dei panorami scheletrici di città.
Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose.
Una odalisca di gomma respirava sommessamente
e volgeva attorno gli occhi d'idolo.
E l'odore acuto della segatura che felpava i passi
e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero.
"È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden."
Noi guardavamo intorno: doveva essere tardi.
Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti
in quella luce di sogno!
Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera
mentre il suo fascino si approfondiva
sotto la frangia notturna dei suoi capelli.
Si mosse. Ed io sentii con una punta d'amarezza tosto consolata
che mai più le sarei stato vicino.
La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano:
così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri
dopo lo strepito della festa,
davanti al panorama scheletrico del mondo.


(Dino Campana)

venerdì 14 agosto 2015

Il silenzio delle cose

Cominciamo a sapere che cosa sia la solitudine quando ascoltiamo il silenzio delle cose. Capiamo allora il segreto sepolto nella pietra e ridestato nella pianta, il ritmo celato o invisibile dell’intera natura. Il mistero della solitudine deriva dal fatto che per questa non esistono creature inanimate. Ogni oggetto ha un suo linguaggio, che ci è dato decifrare col favore di un silenzio senza eguali.


(Emil Cioran)

Canto rassegnato

Vieni, mio dolce amico: sulla bianca
e soda strada noi seguiteremo
finché tutta la valle s'inazzurri.
Vieni: è tanto soave camminare
a te d'accanto, anche se tu non m'ami.
C'è tanto verde, intorno, tanto odore
di timo c'è, e sono così ariose,
nell'indorato cielo, le montagne:
è quasi come se anche tu mi amassi.
Arriveremo giù, fino a quel ponte
sorretto dallo scroscio del torrente:
là tu continuerai pel tuo cammino.
Io resterò sul greto, fra i cespugli,
dove l'acqua non giunge, fra le pietre
chiare, rotonde, immote, come dorsi
di una gregge accosciata. Col mio pianto
vitreo, pari a lente che non pecca,
io specchierò e raddoppierò le stelle.


(Antonia Pozzi)

martedì 11 agosto 2015

...e il sottile tormento del dubbio, e l'ebrezza folle del sogno

-Torino, 13 aprile 1907

Cortese Avvocato, ieri sera ho ritrovato fra le pagine del suo libro un poco di quella fraternità spirituale che la sua offerta mi rivela. Il rimpianto di ciò che fu, e l’ansia di ciò che non è ancora, e il sottile tormento del dubbio, e l’ebrezza folle del sogno, tutte le cose belle e perfide di cui noi poeti si vive e ci s’avvelena. Non ho ancora assaporato le squisitezze dell’arte, solo ho sfiorato l’essenza, l’anima della sua poesia: un’anima un poco amara, un poco inferma. Spero che la sua fraternità non sarà più tanto silenziosa, ch'essa vorrà esprimersi in modo più diretto.

Cordialmente

Amalia Guglielminetti


(Lettera a Guido Gozzano)

Come fare per dirle che di molti suoi sonetti sono innamorato?

-Genova, 5 giugno 1907

Le giuro, cara Signorina, che non conosco nella letteratura muliebre italiana, presente e passata, opera di poesia paragonabile alla sua. (...) Organica è tutta l'opera sua: a qualunque pagina si apra il volumetto, si sente il profumo dello stesso giardino; il giardino dove Lei procede conducendo per mano la teoria delle compagne. E il lettore ha l’impressione di essere per qualche istante ammesso in un giardino claustrale: ad ogni svolto di sentiero, fra i cespi di gigli e gli archi de’ rosai, una nuova coorte di vergini si fa innanzi cantando una nuova sorta di martirio o di speranza. Ella compie nel suo libro, Egregia Guglielminetti, quasi un vergiliato, e conduce il lettore attraverso i gironi di quell'inferno luminoso che si chiama verginità. (...) L’avrà notato anche Lei. Ci si commuove di più, si è quasi più indulgenti di benevolenza pietosa alle vicende di un adulterio che non alle fortune di un idillio verginale. La letteratura vuole così: e la letteratura è quella che foggia la vita. Ora il suo grido, Amica, era necessario per risollevare le figure delle vergini amanti; ed era necessario un temperamento come il suo, educato all'arte severamente, per poter innalzare un canto degno ed efficace. (...) La sua voce si distingue fra tutte; è di un timbro diverso, nuovissimo: e tutti si fermeranno incuriositi perplessi dapprima, riconoscenti ammirati poi. (...) Ma come fare per dirle che i suoi versi mi sono piaciuti? Si dice così anche quando non è vero. Come fare per dirle che di molti suoi sonetti sono innamorato? Lei non sa, Egregia, che cosa significhi per me l’essere innamorato d'una poesia? Significa questo: averne la presenza nel cervello, con una dolcezza quasi importuna, sentirne pulsare il ritmo di continuo nelle cose più diverse e più bizzarre: nel mare, nel treno, nel ticchettio dell’orologio, nel soffiare del vento fra i palmizi, nel contare le goccie di creosoto, nel tinnire delle posate, nel gridio de’ bimbi... Proprio! E molti dei suoi sonetti mi perseguitano. Mi balza alla mente una quartina, due: mi abbandono a quella dolcezza: la memoria ad un tratto s’arresta e il piacere del sogno si stronca a metà. Facciamo un esperimento? Ecco: il suo libro è chiuso, sulla tovaglia (Le scrivo sul tavolo da pranzo, sotto la veranda), un sonetto mi balza improvviso del quale non so il titolo. Questo:

Piangere piano piano con la faccia
contro la vostra spalla vorrei bene
quasi una bimba che non più sostiene
il segreto che l'arde o che l'agghiaccia,
e restare così...

Poi non ricordo più nulla sino al verso

dolce allor mi sarebbe all'improvviso
ritrovare il mio spirito sereno,
rialzarmi e fuggir, squillando un riso.

Poi - ecco - riapro il volume, cerco il sonetto, lo trovo: «un desiderio» e la lettura me ne dà una delizia indicibile, perché tutto il mio spirito è pronto a riceverlo. Mi sono bene spiegato?


(Guido Gozzano, Lettera ad Amalia Guglielminetti)

Ondina


sabato 8 agosto 2015

...la bellezza di quaggiù

Al vedere la bellezza di quaggiù, ci si ricorda della vera bellezza e si mettono le ali.


(Platone; "Fedro")

Ricordarsi delle cose di lassù

Ricordarsi delle cose di lassù a partire dalle cose di quaggiù non è facile per nessuna anima, né per quelle che hanno avuto una fugace visione delle realtà di lassù, né per quelle che, cadute quaggiù, hanno avuto la sventura di farsi trascinare nell'ingiustizia da qualche cattiva frequentazione, lasciando in preda alla dimenticanza quelle visioni sacre di allora. Ne rimangono poche nelle quali il ricordo si conserva in modo sufficiente; queste, quando vedono qualcosa ad immagine delle cose di lassù, ne vengono colpite e non rimangono in sé, anche senza capire che cosa stanno provando e senza riuscire a definirlo con precisione.


(Platone; "Fedro")

domenica 2 agosto 2015

Le cicale

-Socrate: Di tempo ne abbiamo, mi pare. E mi sembra che le cicale, che cantano sopra le nostre teste in questa grande calura, conversando tra loro, diano un'occhiata anche a noi. Se vedessero che anche noi due, come la maggior parte degli altri, a mezzogiorno non conversiamo, ma sonnecchiamo per pigrizia di spirito sotto l'incantesimo delle loro voci, giustamente ci deriderebbero, considerandoci schiavi arrivati presso questo loro luogo per dormire, come pecore che riposano il pomeriggio vicino a una fonte. Ma se invece ci vedranno conversare, e passare vicino a loro come davanti alle Sirene, senza rimanere incantati, allora ci apprezzeranno e magari ci accorderanno quello che gli dei hanno concesso loro di donare agli uomini.

-Fedro: E qual è questo dono? Non mi pare di averne mai sentito parlare.

-Socrate: Non è davvero da uomo amico delle Muse non saperne niente! Si racconta che le cicale un tempo erano uomini, nati prima della nascita delle Muse. Quando poi le Muse nacquero e apparve il canto, alcuni degli uomini di allora furono talmente colpiti dal piacere che, per cantare, non si curavano più né di mangiare né di bere, e senza accorgersene morivano. Nacque da loro, in seguito, la specie delle cicale, che dalle Muse ricevette il dono di non aver bisogno di alcun cibo dopo la nascita, bensì di mettersi subito a cantare senza mangiare né bere, fino alla morte. Dopo la morte esse andranno presso le Muse a riferire loro chi quaggiù le onori, e quale tra loro. A Tersicore riferiscono di coloro che l'hanno onorata nei cori, rendendoglieli più cari; a Erato di chi le ha reso onore nei canti erotici, e così alle altre, secondo le forme di omaggio proprie a ciascuna. A Calliope, la più anziana, e alla successiva, Urania, recano notizia di chi ha trascorso la vita nella filosofia, onorando la musica che è loro propria; poiché, tra tutte le Muse, sono queste che si occupano del cielo e dei discorsi divini e umani, e che possiedono la voce più bella. Di conseguenza molte sono le ragioni per cui a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire.


(Platone; "Fedro")

sabato 1 agosto 2015

Così il saggio è un artista nel domare i mali

Fidia sapeva creare statue non solo d'avorio; le faceva anche di bronzo. Se tu gli avessi offerto un blocco di marmo o un materiale di minor pregio, egli ne avrebbe ricavato il meglio. Così il saggio dispiegherà la propria virtù nella ricchezza, se lo potrà, altrimenti nella povertà; se lo potrà, in patria, altrimenti nell'esilio; come comandante, se gli sarà possibile, altrimenti come soldato; in perfetta forma, se lo potrà, altrimenti in cattive condizioni fisiche. Quale che sia la sorte che gli è toccata, egli ne trarrà qualcosa di memorabile. Vi sono domatori, ben sperimentati, di belve, che costringono animali, ferocissimi e terrificanti se uno li incontra, a subire la volontà dell'uomo, e non contenti di averli spogliati della loro indole aggressiva, li ammansiscono fino a condividerne la compagnia: un addestratore inserisce la mano nelle fauci dei leoni; il guardiano di una tigre la abbraccia; un minuscolo etiope ordina a un elefante di mettersi in ginocchio e sa anche farlo avanzare su una fune. Così il saggio è un artista nel domare i mali. Sofferenza, miseria, ignominia, prigione, esilio - bestiacce temute in ogni parte del mondo fino all'orrore -, quando sono giunte presso di lui, sono già mansuete. Stammi bene. 


(Seneca; "Lettere a Lucilio")