venerdì 31 luglio 2015

Da molti elementi se ne formi uno solo

Ciò che osserviamo nel nostro corpo, la natura lo fa senza il minimo contributo da parte dell'uomo: gli alimenti che assumiamo, finché conservano la loro qualità originaria e fluitano nel nostro stomaco allo stato solido, sono soltanto pesi, ma quando si sono trasformati dallo stato in cui si trovano, allora finalmente si convertono in energie e in sangue. Applichiamo lo stesso metodo con i cibi che alimentano l'ingegno: non tolleriamo che quanto abbiamo assorbito rimanga intatto; così eviteremo che diventi una sostanza a noi estranea. Assimiliamo quella sostanza, altrimenti passerà nella nostra memoria, non nel nostro intelletto. Concediamole un assenso leale e rendiamola parte integrale di noi stessi; da molti elementi se ne formi uno solo, come un unico numero risulta da singoli numeri, quando un totale unico comprende somme di minore entità. Così operi il nostro animo: tenga celati tutti gli elementi da cui ha ricevuto un aiuto e mostri soltanto ciò che esso ha prodotto. (...) 
"Come si potrà ottenere" tu dici "questo risultato?" Con un impegno assiduo.


(Seneca; "Lettere a Lucilio")

giovedì 30 luglio 2015

L'impietrito e il velluto

Ho scoperto le barche che molleggiano
Sole, e le osservo non so dove, solo.

Non accadrà le accosti anima viva.

Impalpabile dito di macigno
Ne mostra di nascosto al sorteggiato
Gli scabri messi emersi dall'abisso
Che recano, dondolo nel vuoto,

Verso l'alambiccare
Del vecchissimo ossesso
La eco di strazio dello spento flutto
Durato appena un attimo
Sparito con le sue sinistre barche.

Mentre si avvicendavano
L’uno sull'altro addosso
I branchi annichiliti
Dei cavalloni del nitrire ignari,

Il velluto croato
Dello sguardo di Dunja, 
Che sa come arretrarla di millenni,
Come assentarla, pietra
Dopo l’aggirarsi solito
Da uno smarrirsi all'altro,
Zingara in tenda di Asie,

Il velluto dello sguardo di Dunja
Fulmineo torna presente pietà.


(Giuseppe Ungaretti)

Agonia

Morire come le allodole assetate
sul miraggio

O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia

Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato


(Giuseppe Ungaretti)

Varvàra Alexandrovna

Un ramo arido di betulle batte
con dentro il verde su una finestra a vortice
di Mosca. Di notte la Siberia stacca il suo vento
 lucente sul vetro di schiuma, una trama
di corde astratte nella mente. Sono malato:
sono io che posso morire da un minuto all'altro;
proprio io, Varvàra Alexandrovna, che giri
per le stanze del Botkin con le scarpette di feltro
e gli occhi frettolosi, infermiera della sorte.
Non ho paura della morte
come non ho avuto timore della vita.
O penso che sia un altro qui disteso.
Forse non ricordo amore, pietà, la terra
che sgretola la natura inseparabile, il livido
suono della solitudine, posso cadere dalla vita.
Scotta la tua mano notturna, Varvàra
Alexandrovna; sono le dita di mia madre
che stringono per lasciare lunga pace
sotto la violenza. Sei la Russia umana
del tempo di Tolstoj o di Majakovschij,
sei la Russia, non un paesaggio di neve
riflesso in uno specchio d'ospedale
sei una moltitudine di mani che cercano altre mani


(Salvatore Quasimodo)

Salvatore Quasimodo legge Varvàra Alexandrovna


lunedì 27 luglio 2015

Io sono soltanto lucido

Né abbastanza infelice per essere poeta, né abbastanza indifferente per essere filosofo, io sono soltanto lucido, abbastanza però per essere condannato.

-----

Ni assez malheureux pour être poète , ni assez indifférent pour être philosophe , je ne suis que lucide , mais assez pour être condamné .


(Emil Cioran)

Paesaggio

Mattina

Ha una corona di freschi pensieri,
Splende nell'acqua fiorita.

Meriggio

Le montagne si sono ridotte a deboli fumi
e l'invadente deserto formicola d'impazienze
e anche il sonno turba e anche le statue si turbano.

Sera

Mentre infiammandosi s'avvede ch'è nuda,
il florido carnato nel mare fattosi verde bottiglia,
non è più che madreperla.
Quel moto di vergogna delle cose svela per un momento,
dando ragione dell'umana malinconia,
il consumarsi senza fine di tutto.

Notte

Tutto si è esteso, si è attenuato, si è confuso.
Fischi di treni partiti.
Ecco appare, non essendoci più testimoni,
anche il mio vero viso, stanco e deluso.


(Giuseppe Ungaretti)

domenica 19 luglio 2015

...e anzi partire da lì

E se torniamo a parlare della solitudine si chiarisce sempre più che non è cosa che sia dato di scegliere o lasciare. Noi siamo soli. Ci si può ingannare su questo e fare come se non fosse così. Ma quanto meglio invece sarebbe comprendere che noi lo siamo, soli, e anzi partire da lì. E allora accadrà che saremo presi dalle vertigini; perché tutti i punti su cui il nostro occhio usava riposare ci vengono tolti, non v’è più nulla di vicino, e ogni cosa lontana è infinitamente lontana. Chi dalla sua stanza, quasi senza preparazione e trapasso, venisse posto sulla cima di una grande montagna, dovrebbe provare un senso simile: una incertezza senza uguali, un abbandono all’ignoto quasi l’annienterebbe. Egli vaneggerebbe di cadere o si crederebbe scagliato nello spazio o schiantato in mille frantumi. Quale enorme menzogna dovrebbe inventare il suo cervello per recuperare e chiarire lo stato dei suoi sensi. Così si mutano per colui che diviene solitario tutte le distanze, tutte le misure; di queste mutazioni molte sorgono d’improvviso e, come in quell’uomo sulla cima della montagna, nascono allora straordinarie immaginazioni e strani sensi, che sembrano crescere sopra ogni capacità di sopportazione.  Ma è necessario che noi consumiamo anche questa esperienza. Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca; tutto, anche l’inaudito deve essere ivi possibile. È questo in fondo il solo coraggio che a noi si richieda: il coraggio di fronte all’esperienza più strana, più prodigiosa e inesplicabile, che ci possa incontrare.


(Rainer Maria Rilke)

giovedì 16 luglio 2015

A Vittoria Colonna

Un uomo in una donna, anzi un dio,
per la sua bocca parla,
ond'io per ascoltarla
son fatto tal, che ma' più sarò mio.
I' credo ben, po' ch'io
a me da lei fu' tolto,
fuor di me stesso aver di me pietate;
sì sopra 'l van desìo
mi sprona il suo bel volto,
ch'io veggio morte in ogni altra beltate.
O donna che passate
per acque e foco l'alme
a' liei giorni,
deh, fate c'a me stesso più non torni.


(Michelangelo Buonarroti)

domenica 12 luglio 2015

Tutte le arti

Tutte le arti contribuiscono all'arte più grande di tutte: quella di vivere.


(Bertolt Brecht)

Amico - mi circonda il vasto mare

Amico - mi circonda il vasto mare
con mille luci - io guardo all'orizzonte
dove il cielo ed il mare
lor vita fondon infinitamente. -
Ma altrove la natura aneddotizza
la terra spiega le sue lunghe dita
ed il sole racconta a forti tratti
le coste cui il mare rode ai piedi
ed i verdi vigneti su coronano.
E giù: alle coste in seno accende il sole
bianchi paesi intorno ai campanili
e giù nel mare bianche vele erranti
alla ventura. -

 A me d'accanto, sullo stesso scoglio
sta la fanciulla e vibra come un'alga,
siccome un'alga all'onda varia e infida
philobatheía. -
S'avviva al sole il bronzo dei capelli
ed i suoi occhi di colomba tremuli
guardano il mare e guardano la costa
illuminata.
Ma sotto il velo dell'aria serena
sente il mistero eterno d'ogni cosa
costretta a divenire senza posa
nell'infinito.
Sente nel sol la voce dolorosa
dell'universo, - e l'abisso l'attira
l'agita con un brivido d'orrore
siccome l'onda suol l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole. -

 Amico io guardo ancora all'orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch'io plasmi il mio mondo e perchè il sole
di me possa narrar l'ombra e le luci -
la vita che mia dia pace sicura
nella pienezza dell'essere.

 E gli occhi tremuli della colomba
vedranno nella gioia e nella pace
l'abisso della mia forza selvaggia -
e le onde varie della mia esistenza
l'agiteranno or lievi or tempestose
come l'onda del mar l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole. - 


(Carlo Michelstaedter)

martedì 7 luglio 2015

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
 l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
 lo dichiari e risplenda come un croco
 perduto in mezzo a un polveroso prato.

 Ah l’uomo che se ne va sicuro,
 agli altri ed a se stesso amico,
 e l’ombra sua non cura che la canicola
 stampa sopra uno scalcinato muro!

 Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
 sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
 Codesto solo oggi possiamo dirti,
 ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


(Eugenio Montale - Luglio 1923)

Quale credo avrò domani?

Questa è la mia fede, stasera. Domattina sarà diversa, perché domattina sarò già un altro. Quale credo avrò domani? Non lo so, perché bisognerebbe che fosse domani per saperlo. Nemmeno il Dio eterno in cui oggi credo può saperlo, né domani né oggi, perché oggi io sono io e domani egli forse non sarà mai esistito.


(Fernando Pessoa)

A Tale from the Decameron


venerdì 3 luglio 2015

Segnali

A Septimus Warren Smith - disteso sul divano del salotto a fissare l'oro liquido della luce che, con la sorprendente sensibilità di una creatura viva, brillava e dileguava sulle rose, sulla carta da parati - la luce e l'ombra che andavano e venivano, sembravano emettessero dei segnali, degli inviti, ora ingrigendo la parete, ora facendo più gialle le banane, ora oscurando lo Strand, ora illuminando gli autobus gialli. Fuori, gli alberi allungavano nella profondità dell'aria le foglie come fossero reti; nella stanza si sentiva un rumore d'acqua, e con le onde venivano le voci degli uccelli che cantavano. Ogni potenza gli rovesciava sulla testa i suoi tesori, e la mano di lui poggiava sul divano, come la mano che facendo il bagno aveva visto galleggiare a fior d'acqua, mentre dalla spiaggia sentiva dei cani abbaiare sempre più in lontananza. Non temere, gli diceva il cuore da dentro il corpo; non temere. Non avere paura. Ogni istante la Natura, agitando le piume, scuotendo le trecce, buttando qua e là il suo mantello, con grande bellezza, sempre con grande bellezza, venendogli vicino e dal cavo delle sue mani sante suggerendogli le parole di Shakespeare, gli annunciava con dei segni gioiosi, con quella macchia d'oro che si spostava sulla parete - lì, lì, lì - la volontà di mostrargli il significato...


(Virginia Woolf; "Mrs Dalloway")

Risorse illimitate

(...) Ed era proprio questa la cosa di cui in quel periodo sentiva spesso il bisogno: pensare, o meglio, neppure pensare. Starsene in silenzio; starsene da sola. Tutto l'essere e il fare, espansivi, luccicanti, vocali, svanivano; e ci si ripiegava, con un senso di solennità, a essere se stessi, un nucleo cuneiforme di oscurità, qualcosa di invisibile agli altri. Sebbene continuasse a lavorare a maglia e a star seduta dritta, era così che si sentiva; e questo suo io, essendosi liberato da ogni legame, era libero di compiere le più strane avventure. Quando la vita si inabissava per un attimo, il campo delle esperienze sembrava illimitato. Ed era comune a tutti questo senso di risorse illimitate, immaginava; uno dopo l'altro, lei, Lily, Augustus Carmichael, dovevano sentire che le apparenze, le cose per le quali gli altri ci riconoscono, sono semplicemente puerili. Al di sotto è tutto buio, è estensione, è profondità incommensurabile; ma di tanto in tanto risaliamo alla superficie e questo è quello che gli altri vedono di noi. Il suo orizzonte le sembrò illimitato. C'erano tanti posti che non aveva visto; le pianure dell'India; si vide nell'atto di tirare una pesante tenda di cuoio di una chiesa romana. Questo nucleo d'oscurità poteva andare dappertutto, perché nessuno lo vedeva. Non potevano fermarlo, pensò, esultando. C'era libertà, c'era pace, c'era, cosa più gradita delle altre, raccoglimento, riposo su una piattaforma di stabilità. (...) Perdendo la personalità, si perdeva l'ansia, la fretta, l'inquietudine; e le veniva sempre alle labbra qualche esclamazione di trionfo sulla vita quando le cose si raccoglievano in questa pace, in questo riposo, in questa eternità; e fermandosi, guardò in direzione di quel raggio del Faro, quello lungo e fisso, l'ultimo dei tre, che era il suo raggio. Spesso si ritrovava lì, seduta a guardare, con il lavoro in mano, finché non diveniva la cosa guardata - quella luce, ad esempio.


(Virginia Woolf)