-Torino, 26 ottobre 1907
Caro Amico
(...) La vanità dei nostri colloqui è dovuta a me, sapete, perché io so dire così poco e così male quello che penso. Per questo forse, solo per questo io scrivo e m'illudo d'esprimermi meglio. E poi certe cose pérdono o si travisano o si falsano ad essere dette, altre assolutamente non si possono dire; mancano nel discorso parlato le sfumature e le imagini della poesia, che dette sembrerebbero affettazioni e pose. Solo una lunga intimità fra due persone d'uguali aspirazioni come noi siamo, potrebbe dissipare questa reticenza e inchinare poco a poco a una concorde e piena manifestazione d'ogni più sottile moto del pensiero. Noi non dovremmo parlare che di noi stessi quando siamo insieme, e invece perché popoliamo il nostro discorso di persone intruse e di cose estranee? La colpa è mia, lo so. Mi sento tanto più comune di quella che mi credete agitata da tanti desideri piccoli, da avversioni e da ambizioni inferiori. Credete voi proprio al mio fascino spirituale? Temo una lusinga perché io vi credo così poco. Vi posso dire sinceramente che mai io sono stata amata nel senso un poco elevato di questa parola. Sono stata desiderata qualche volta, ho destato qualche ardore della più pura, o meglio della più impura sensualità. Forse - chi sa? - non merito altro.
(...) Voi ricordate i miei silenzi perché le mie parole vacue non vi sono certo ricordi piacevoli. Mi pento un poco - sapete? - d’avervi fatto quella lettura malgrado le parole buone con cui mi incoraggiaste. Temo d’aver preso in quel lavoro una strada falsa, d'aver commesso un'ingenuità, o peggio una sciocchezza. Ho avuto, in quel momento che precedette la mia lettura quella sera, una tentazione che mi duole ora d'aver vinto. C'era una delle vostre belle mani appoggiata al bracciuolo della sedia che occupavate, e con l’altra vi sostenevate la fronte nascondendovi gli occhi. La mano inerte era vicinissima al mio volto così che con un breve movimento avrei potuto mettervi sopra la gota e lasciarvela un poco, senza parlare, senza leggere così, come in un sogno. Invece - dopo un indugio che credeste di trepidazione - ho incominciato a sgranarvi il mio rosario di terzine. Ho negli occhi la vostra attitudine di quel momento, ed anche una speciale inclinazione del capo che prendete quando guardate a lungo qualcosa o qualcuno.
(...) Addio Guido - mi piace chiamarvi così perché quelli che viaggiano in comitiva vi chiamano diversamente - e Voi chiamatemi Amalia - con un m solo, ahimé! - ma forse amica è più dolce. Parlatemi presto in molte pagine e prendetevi le mie mani che vorrei medicina più efficace per Voi.
(Amalia Guglielminetti, Lettera a Guido Gozzano)
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