A terza, il giorno di Natale, tutti si trovarono riuniti nella sala. Il cuore di Erec era sopraffatto dalla grande gioia che si stava preparando per lui. Nessuna lingua o bocca d'uomo potrebbe narrare, per quanto bene ne conoscesse l'arte, né un terzo né un quarto e nemmeno un quinto della magnificenza di quell'incoronazione. Pure io voglio accingermi a così grande follia, e sforzarmi di descrivere la cerimonia. E poiché devo, e reputo di poterlo fare, non trascurerò di dirne almeno una parte, nella misura in cui me lo concederà il mio ingegno.
Nella sala erano stati posti due bianchi troni d'avorio, di squisita fattura e di colori sfumati, uguali per lavorazione e dimensioni. Colui che ne era stato l'artefice era invero ingegnoso e sagace, poiché li aveva fabbricati della stessa altezza e lunghezza, e forniti dei medesimi ornamenti sì che, anche a riguardarli da ogni parte, non si sarebbe potuto discernere in uno un particolare che non si trovasse anche nell'altro. Nemmeno un dettaglio era fatto di legno: tutto era d'avorio e di oro fino, e quei troni erano intagliati con tale arte che le due zampe davanti avevano sembianza di leopardi e le altre due di coccodrilli. Ne aveva fatto omaggio e dono a re Artù e alla regina un cavaliere di nome Bruianz delle Isole. Artù sedette su un trono e fece sedere sull'altro Erec, abbigliato di una veste di seta marezzata. Leggendo nella storia, troviamo la descrizione di quell'abito, e ne prendo a garante Macrobio, che mise ogni cura a scrivere tale racconto e, a dire il vero, lo conosceva bene. Macrobio mi insegnò a descrivere la lavorazione e i disegni di quella veste, così come l'ho trovata nel suo libro.
Quattro fate l'avevano foggiata con grande abilità e arte. L'una vi aveva ritratta Geometria: com'essa osserva e misura le dimensioni del cielo e della terra senza nulla lasciarsi sfuggire, né il basso, né l'alto, né la larghezza o la lunghezza; poi come essa riguarda quanto è vasto e profondo il mare, e così misura il mondo intero. Questa era stata l'opera della prima fata.
La seconda si era adoprata a ritrarre Aritmetica, e si era data la pena di mostrare appieno con quale saggezza essa conti i giorni e le ore del tempo e, a goccia a goccia, l'acqua del mare, e poi ogni granello di sabbia, tutte le stelle a una a una, e quante foglie vi sono in un bosco, sì che sa ben dirne tutto il vero: mai un numero la trasse in inganno né mai essa mentirà, poiché vuole bene comprendere ogni cosa. Tale era l'opera di Aritmetica.
La terza figura rappresentava Musica, in cui si accorda ogni diletto: canto e discanto e, senza discordanze, melodie di arpa, di rotta e di viella. Era una creazione di suprema bellezza e, davanti a Musica erano raffigurati tutti gli strumenti e ogni piacere.
La quarta fata, che vi aveva posto mano per ultima, aveva foggiata un'opera mirabile: vi aveva rappresentata la migliore delle arti, Astronomia, che tanti prodigi compie ispirandosi alle stelle, alla luna e al sole; non ricorre a null'altro in ogni contingenza; il cielo le è sì buon consigliere, qualunque cosa gli richieda, che essa può sapere con certezza, senza menzogna né inganno, ciò che fu e ciò che sarà.
Quanto ho descritto era tessuto e ricamato a fili d'oro nella stoffa dell'abito di Erec.
(...) Enide intanto non era ancora giunta a palazzo. Quando il re vide che tardava, ordinò a Galvano che andasse a prenderla. Galvano non esitò a eseguire il comando, e subito si avviò accompagnato dal re Cadualanz e dal generoso sovrano del Galloway. Facevano loro scorta anche Guivret il Piccolo e, dietro, Idiero figlio di Nut. Altri baroni accorsero per accompagnare la dama, tanti che avrebbero potuto sconfiggere un esercito, poiché erano più di un migliaio.
Il cortese Galvano da una parte, e dall'altra il generoso re del Galloway, che l'aveva molto cara perché Erec era suo nipote, condussero a palazzo Enide, che la regina si era adoprata ad agghindare meglio che aveva potuto. Al loro arrivo, subito re Artù corse loro incontro e, con cortesia, fece sedere Enide accanto a Erec, poiché voleva renderle ogni onore. Poi ordinò che fossero tratte dal proprio tesoro due corone d'oro fino e massiccio.
L'ha appena comandato, che subito gli vengono recate le corone, scintillanti dei carbonchi che vi erano incastonati in numero di quattro per ciascuna. Il chiarore della luna è nulla rispetto allo splendore che emanava la più piccola di quelle gemme. Quanti erano nel palazzo rimasero talmente abbagliati dalla luce che ne scaturiva che, per un momento non videro nulla. Anche il re fu accecato, ma non per questo mancò di rallegrarsi per le loro bellezza e luminosità.
Fece prendere una corona da due pulzelle e dette l'altra a due baroni. Poi ordinò che venissero avanti i vescovi, i priori e gli abati, e che ungessero il nuovo re secondo la legge cristiana.
Ora tutti i prelati, giovani e canuti, si presentarono al re; nella corte vi sono chierici, vescovi e abati in gran numero. Il vescovo di Nantes in persona, ch'era uomo molto pio e di grande valore, consacra santamente e secondo la regola il nuovo re, e gli pone in capo la corona.
Poi Artù fa portare uno scettro che riscuote grande ammirazione. Sentite com'era fatto: splendeva più di un cristallo, ed era ricavato in un solo pezzo da uno smeraldo più grosso di un pugno. Oso dire invero che in tutto il mondo non vi è specie di pesce, di animale selvaggio, di uomo o di uccello alato che non vi fosse intagliato o scolpito, ciascuno secondo la propria vera immagine.
Lo scettro fu consegnato al re, che lo guardò ammirato e poi, senza tardare oltre, lo pose nella mano destra di Erec: ora egli è re come gli aspettava. Poi incoronano Enide.
(Chrétien de Troyes; "Erec e Enide")

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