giovedì 4 agosto 2016

Scrivetemi appena il cuore vi dolga meno

- Di casa. Giovedì, 11 marzo 1909

Cara Amalia,
dopo le prime parole fraterne in quell'ora tremenda non volevo più scrivervi che quando aveste pianto tutte le vostre lacrime. Ma oggi ho ricevuta la vostra lettera e ho incontrata Erminia... Vi scrivo, dunque, ma senza sapervi che dire e come dire... Povera Amalia! Pensate che vi parlo dal letto di mia Madre, ferita per sempre: ho vicina Suor Giulia delle Nazzarene, che la veglia da tre mesi. Da Suor Giulia (che le aveva da Suor Gaudenzia) sapevo notizie ogni giorno, seguivo passo per passo il cammino del Dolore nella vostra casa... E una sera ho capito, dai segni muti della Suora, attraverso il letto di mia Madre, la notizia senza riparo! Mia Madre comprese subito e scoppiò in singhiozzi e si pianse tutta la sera - ve lo giuro sulla guarigione di Lei! - Si pianse tutta la sera come per una figlia ed una sorella - Amalia, povero mio buon compagno, eccoci di fronte al Dolore, quella cosa che la nostra giovinezza ignorava tuttavia. Facciamoci coraggio: e più io che Voi! Il Tempo lenirà ogni ferita, a Voi. A me no. Voi potrete resuscitare con l’arte maga della poesia quella che non avete più. Io no. Io avrò per anni e anni, dinnanzi a me, nella mia casa, il fantasma di quella che fu la mia Mammina giovine e svelta... Considerate quale delle due sciagure è la più atroce! Un altro conforto avete: potete cantare il vostro dolore. So che avete composto per l’anima scomparsa una cosa dolcissima. Io non ho questo bene. La mia poesia non mi consola nel dolore: ha paura di soffrire; non mi segue e non la illudo con bei sogni, fra ozi piacevoli. Voi avete questo dono di cantare il vostro pianto, come confessaste Voi stessa, altra volta:

Perché talor non piango io il mio pianto
lo canto; e qualche mia mesta canzone,
è forse il sangue del mio cuore infranto!

Cara cara Amalia, considerate questo bene che v’è rimasto! E quando ritornerete dalla Liguria - (sapete che gran consolatore sia il Mare!) sarete un’altra: più forte più bella più tesa verso l’avvenire. Io sarò più vinto ancora: triste menomato profanato dal mio martirio continuo. "Parlatemi di Lei, Caro Guido!" Ch'io vi parli di Lei? Temo di offendervi, perché parlando di Lei non posso essere triste. Non credo nella Morte. Non si muore. Non è morta. È fatta più viva, più presente. La dolce creatura che vedevo nella vostra casa, famigliarmente, ma pur diviso da mille piccole convenienze sociali, è ora libera da tutti e da tutto, è con me, quando voglio, ubbidiente come il mio pensiero. Vogliamo vederla? Basta chiudere gli occhi. S’ode il suo passo nel vestibolo, Ella rientra freddolosa: "Buon giorno Gozzano, buon giorno Erminia, buon giorno Amalia!" (Amalia non gridate, non piangete, Ella non sa di essere morta!). Si toglie la pelliccia, l’abbandona su di una sedia. Ci sorride, ansimando. Appare lo stelo della persona sottile nella nera guaina altocinta. Si toglie il cappello con un gesto rapido, rialza, ravviva a due mani la massa dei capelli, con un gesto lento. E resta rivolta verso la finestra, di profilo, con quel suo profilo assiro (rideva e Le piaceva tanto ch'io Le dicessi questo!) quel profilo dalla fronte breve, dal naso perfettamente arcuato, dal vasto arco cigliare, dal mento forte volontario! E parla con la sua voce (Non piangete, Amalia! Ella non sa di essere morta!) e parla con la sua voce non bella e tanto soave, e dice le piccole cose della vita: "Che freddo! quanta neve! Sono stata dalla modista, sai Amalia: ho leticato molto per quelle tali penne sciupate. Sono stata in Chiesa; ho molto pregato. Ho comperato la carta da lettera scelta da Erminia: una cosa orribile... Ma che c’è per guardarmi a quel modo?..." Ella si volge, ci guarda, ci vede piangere in silenzio. E allora tace, si ricorda, comprende. Impallidisce e si fa diafana, diafana come la neve nell'acqua. Ci sorride tacendo, mentre attraverso alla sua persona non più terrena già traspare l’intarsio dei mobili, il fiorame della parete. E nella parete si dilegua  affonda come cosa grave nell'acqua cupa... Aprite gli occhi, non la vedete più! Quel mistero che fu convenuto di chiamare la Morte la nasconde ai nostri sensi miserabili, l’ha liberata del triste peso umano, dell’umiliazione del tempo e dello spazio. Ma Ella è viva, è più viva e presente di prima. Ora Ella sa tutto, vede tutto, comprende tutto, è in tutto. È anche in noi, se ci ascoltiamo ad occhi chiusi e ci dice, senza parole, cose di bontà e di speranza. Speranza! Vi lascio con queste parole, Amalia cara. Domani lascierete le nostre nevi tardive per quel mare dal quale mi strappava, tre mesi or sono, un telegramma disperato. Scrivetemi appena il cuore vi dolga meno e abbiatemi oggi e sempre pel vostro affezionatissimo fratello
GUIDO


(Guido Gozzano, Lettera ad Amalia Guglielminetti)

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