Vorrei
Vorrei
nascere
in tutti i paesi,
perchè la terra stessa, come anguria,
compartisse per me
il suo segreto,
e essere tutti i pesci
in tutti gli oceani
e tutti i cani
nelle strade del mondo.
Non voglio inchinarmi
davanti a nessun dio,
la parte non voglio recitare
di un hippy ortodosso,
ma vorrei tuffarmi
in profondità del Bajkal
e sbuffando
riemergere
nel Mississippi.
Vorrei
nel mio mondo adorato e maledetto,
essere un misero cardo -
non un curato giacinto,
essere una qualsiasi creatura di dio
sia pure l’ultima jena rognosa,
ma in nessun caso un tiranno
e di un tiranno, nemmeno il gatto -
in nessun caso.
Vorrei essere uomo,
in qualsiasi personificazione:
anche torturato in un carcere del Guatemala,
o randagio nei tuguri di Honk Kong,
o scheletro vivente nel Bangladesh
o misero jurodivyj a Lhasa,
o negro a Capetown,
ma non personificazione della feccia.
Vorrei giacere,
sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo,
essere gobbo, cieco,
provare ogni malattia, ferita, deformità,
raccogliere luride cicche -
purchè in me non s’insinui
il microbo ignobile della superiorità.
Non vorrei far parte dell’elite,
ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi,
nè dei cani del gregge,
nè dei pastori che al gregge si conformano,
vorrei essere felicità,
ma non a spese degli infelici,
vorrei essere libertà,
ma non a spese di chi è asservito.
Vorrei amare
tutte le donne del mondo
e vorrei essere donna anch’io -
magari una volta soltanto…
Madre-natura,
l’uomo è stato da te defraudato.
Perchè non dargli
la maternità?
Se in lui, sotto il cuore, un figlio
si facesse sentire così
senza un perchè
certo l’uomo
non sarebbe tanto crudele.
Vorrei essere essenziale -
magari una tazza di riso
nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto,
o una cipolla
nella brodaglia di un carcere di Haiti,
o un vino economico
in una trattoria di terz’ordine napoletana
e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio
in orbita lunare:
che mi mangino pure
e mi bevano -
purchè nella mia morte
ci sia una utilità.
Vorrei appartenere a tutte le epoche,
far trasecolare la storia tanto
da stordirla
con la mia impudenza:
della gabbia di Pugacev segherei le sbarre
quale Gavroche introdottosi in Russia
condurrei Nefertiti
a Michajlovsloe, sulla trojka di Puskin.
Vorrei cento volte
prolungare la durata di un attimo:
per potere nello stesso istante
bere alcool con i pescatori della Lena,
baciare a Beirut,
danzare in Guinea, al suono del tam-tam,
scioperare alla Renault
correre dietro un pallone con i ragazzi di Copacabana,
vorrei essere onnilingue,
come le acque segrete del sottosuolo.
Fare di colpo tutte le professioni
e ottenere così che
un Evtusenko sia semplicemente poeta,
un altro, un militante clandestino spagnolo,
un terzo, uno studente di Barkeley
e un quarto, un cesellatore di Tbilisi.
Un quinto – scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza
e il decimo…
il centesimo…
il milionesimo…
Poco per me essere me stesso-
tutti, fatemi essere!
E per ciascun essere,
in coppia,
come si usa.
Ma dio,
lesinando la carta carbone
mi ha prodotto in un solo esemplare
nel suo bogizdat.
Ma a dio confonderò le carte.
Lo raggirerò!
Avrò mille facce
fino all’ultimo giorno,
affinchè la terra rimbombi per causa mia
e i computers impazziscano
per il mio universale censimento.
Vorrei, umanità,
lottare su tutte le tue barricate,
stringermi ai Pirenei,
coprirmi di sabbia attraverso il Sahara
e accettare la fede
della grande fratellanza umana
e fare proprio
il volto di tutta l’umanità.
E quando morirò -
sensazionale Villon siberiano -
non deponetemi
in terra inglese
o italiana -
ma nella nostra terra russa,
su quella verde,
serena collina,
dove per la prima volta
io
mi sono sentito tutti.
(Evgenij Evtušenko; 1972)
Vorrei
nascere
in tutti i paesi,
perchè la terra stessa, come anguria,
compartisse per me
il suo segreto,
e essere tutti i pesci
in tutti gli oceani
e tutti i cani
nelle strade del mondo.
Non voglio inchinarmi
davanti a nessun dio,
la parte non voglio recitare
di un hippy ortodosso,
ma vorrei tuffarmi
in profondità del Bajkal
e sbuffando
riemergere
nel Mississippi.
Vorrei
nel mio mondo adorato e maledetto,
essere un misero cardo -
non un curato giacinto,
essere una qualsiasi creatura di dio
sia pure l’ultima jena rognosa,
ma in nessun caso un tiranno
e di un tiranno, nemmeno il gatto -
in nessun caso.
Vorrei essere uomo,
in qualsiasi personificazione:
anche torturato in un carcere del Guatemala,
o randagio nei tuguri di Honk Kong,
o scheletro vivente nel Bangladesh
o misero jurodivyj a Lhasa,
o negro a Capetown,
ma non personificazione della feccia.
Vorrei giacere,
sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo,
essere gobbo, cieco,
provare ogni malattia, ferita, deformità,
raccogliere luride cicche -
purchè in me non s’insinui
il microbo ignobile della superiorità.
Non vorrei far parte dell’elite,
ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi,
nè dei cani del gregge,
nè dei pastori che al gregge si conformano,
vorrei essere felicità,
ma non a spese degli infelici,
vorrei essere libertà,
ma non a spese di chi è asservito.
Vorrei amare
tutte le donne del mondo
e vorrei essere donna anch’io -
magari una volta soltanto…
Madre-natura,
l’uomo è stato da te defraudato.
Perchè non dargli
la maternità?
Se in lui, sotto il cuore, un figlio
si facesse sentire così
senza un perchè
certo l’uomo
non sarebbe tanto crudele.
Vorrei essere essenziale -
magari una tazza di riso
nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto,
o una cipolla
nella brodaglia di un carcere di Haiti,
o un vino economico
in una trattoria di terz’ordine napoletana
e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio
in orbita lunare:
che mi mangino pure
e mi bevano -
purchè nella mia morte
ci sia una utilità.
Vorrei appartenere a tutte le epoche,
far trasecolare la storia tanto
da stordirla
con la mia impudenza:
della gabbia di Pugacev segherei le sbarre
quale Gavroche introdottosi in Russia
condurrei Nefertiti
a Michajlovsloe, sulla trojka di Puskin.
Vorrei cento volte
prolungare la durata di un attimo:
per potere nello stesso istante
bere alcool con i pescatori della Lena,
baciare a Beirut,
danzare in Guinea, al suono del tam-tam,
scioperare alla Renault
correre dietro un pallone con i ragazzi di Copacabana,
vorrei essere onnilingue,
come le acque segrete del sottosuolo.
Fare di colpo tutte le professioni
e ottenere così che
un Evtusenko sia semplicemente poeta,
un altro, un militante clandestino spagnolo,
un terzo, uno studente di Barkeley
e un quarto, un cesellatore di Tbilisi.
Un quinto – scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza
e il decimo…
il centesimo…
il milionesimo…
Poco per me essere me stesso-
tutti, fatemi essere!
E per ciascun essere,
in coppia,
come si usa.
Ma dio,
lesinando la carta carbone
mi ha prodotto in un solo esemplare
nel suo bogizdat.
Ma a dio confonderò le carte.
Lo raggirerò!
Avrò mille facce
fino all’ultimo giorno,
affinchè la terra rimbombi per causa mia
e i computers impazziscano
per il mio universale censimento.
Vorrei, umanità,
lottare su tutte le tue barricate,
stringermi ai Pirenei,
coprirmi di sabbia attraverso il Sahara
e accettare la fede
della grande fratellanza umana
e fare proprio
il volto di tutta l’umanità.
E quando morirò -
sensazionale Villon siberiano -
non deponetemi
in terra inglese
o italiana -
ma nella nostra terra russa,
su quella verde,
serena collina,
dove per la prima volta
io
mi sono sentito tutti.
(Evgenij Evtušenko; 1972)
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