domenica 20 settembre 2015

Qual è mai questa verità che una pellicola sa afferrare?

Il socio più importante di questa ditta, quello che ha più soldi, che è sempre malato in un luogo imprecisato, ha voluto, non so per quale capriccio di un intervallo della malattia, avere una fotografia di gruppo del personale dell'ufficio. E così, ieri l'altro, ci siamo schierati tutti in posa, su indicazione dell'allegro fotografo, contro il tramezzo bianco-sporco che divide, con il fragile legno, l'ufficio comune dal gabinetto del signor Vasques. Il signor Vasques stava al centro; ai due lati, in una distribuzione prima definita, poi casuale di categorie le altre anime umane che ogni giorno riuniscono in questo luogo i loro corpi per attendere a piccoli doveri di cui solo il segreto degli Dei conosce l'ultimo scopo. Oggi, quando sono arrivato in ufficio, un po' tardi e in realtà già dimentico dell'avvenimento statico della fotografia scattata due volte, ho trovato Moreira, inaspettatamente mattutino, e uno degli impiegati di banco, golosamente chini su delle cose annerite che ho subito riconosciuto con un trasalimento come le prime prove delle fotografie. Invece erano soltanto due copie della stessa fotografia, quella che era venuta meglio. Ho patito la verità di vedermi lì, dato che, come è naturale, ho cercato per primo me stesso. Non ho mai avuto un'idea nobile della mia presenza fisica, ma mai l'avevo sentita così insignificante come in confronto agli altri visi, che conoscevo così bene, in quella fila di persone di ogni giorno. Sembro un gesuita smunto. Il mio viso magro e inespressivo non possiede intelligenza né intensità, né una cosa qualsiasi che lo faccia emergere dalla marea morta degli altri visi. O meglio, non è una marea morta. Vi sono dei volti veramente espressivi. Il signor Vasques è esattamente com'è: la larga faccia gioviale e dura, lo sguardo fermo, i baffi rigidi che danno il tocco finale. L'energia, la furbizia di quell'uomo (tutto sommato così banali e così spesso riprodotte in tante migliaia di uomini in tutto il mondo) sono scritte in quella fotografia come in un passaporto psicologico. I due commessi viaggiatori sono stupendi; il commesso del banco è venuto bene ma è rimasto quasi nascosto da una spalla di Moreira. E Moreira! Il mio superiore Moreira, essenza della monotonia e della continuità, è molto più vivo di me! Perfino il garzone (me ne accorgo senza poter reprimere un sentimento che cerco di supporre non sia invidia) possiede una sicurezza di lineamenti, un'espressione diretta che è a migliaia di sorrisi di distanza dal mio squallore insignificante da sfinge di cartoleria. Che cosa significa tutto ciò? Qual è mai questa verità che una pellicola sa afferrare? Qual è questa certezza che una fredda lente documenta? Chi sono io per essere così? Tuttavia... E l'insulto dell'insieme? "Lei è riuscito benissimo in fotografia," dice ad un tratto Moreira. E poi interpella il commesso di banco, "È proprio lui tale e quale, non trova?". E l'impiegato di banco annuisce subito con un'allegria amichevole che mi riduce a spazzatura.


(Fernando Pessoa; "Il libro dell'inquietudine")

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