(...) Lassù nei turbini bianco-azzurri del sogno, col corpo mi si è rinforzata l’anima. Mi erano compagni due spiriti rari e forti: Comici e una ragazza di Padova aristocratica e montanara. Non dimenticherò mai l’ultima giornata passata con lei fra il rifugio Principe e il rifugio Locatelli, sotto le immani pareti Nord delle Cime. Comici arrampicava solo su per la Nord della Piccola, un’ascensione estremamente difficile. Noi sotto, sul ghiaione, nell’ombra fredda, a seguire spasmodicamente con gli occhi quel punto minuscolo crocefisso al lastrone nero. Poi, quando lui fu in cima, noi giù a salti per uscire dall’ombra e là, per terra, al sole, a 2500 metri, fino al tramonto. C’era un silenzio infinito e pur denso di suoni. Dalla valle profonda di Sesto, salivano rotti palpiti di campani, giù dalle gole, dai camini, rispondevano rarissime pietruzze rimbalzanti sul ghiaione. E a me, così supina, pareva che l’enorme conca deserta fosse pur piena di un’altra musica, una specie di ronzio gonfio e continuo, che sembrava partire da un gigantesco organo sospeso fra cielo e terra. Ed ecco: guardando in alto, pensai che avverrebbe delle nostre anime se quelle nuvole bianche che passano incessantemente lassù avessero ciascuna un suono, una nota, un canto; più in basso le nuvole lente e scure, chiaro argentino le nuvole candide. Forse in quell’ora era il passo delle nuvole, era la voce delle nuvole che mi sonava dentro come una sinfonia orchestrale. O forse erano le Tre Cime, là erette come una cattedrale gotica, sventrata dal fulmine e spalancata a Dio, che lasciavano prorompere l’urlo delle loro preghiere di pietra. E forse in tutto quel canto la nota più alta era tenuta dall’anima dell’uomo solo lassù, con la sua vittoria e il suo sonno sotto il sole (...). Forse anche erano i morti, di cui sotto le Cime e la Forcella di Lavaredo si trovano le ossa bianche sparse, benedette e purificate dalla neve e dal sole; i morti della nostra guerra, forse, che cantavano nel sole di mezzogiorno, per la mia stanchezza ebbra, per il mio corpo di ragazza sull’erba breve e puntuta, per il mio cuore stretto contro un masso di granito bianco e le mie mani posate amorosamente sull’appiglio (...) Se potessi sempre ricordarmi di quell’ora, la vita sarebbe una vittoria continua...
(Antonia Pozzi; Lettera a Tullio Gadenz - 1938)
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