Omero era un filosofo (...) Infatti, ora fanno di lui uno stoico, cioè un uomo che approva soltanto la virtù e rifugge i piaceri e che non si allontana dall'ideale dell'onestà neppure in cambio dell'immortalità, ora un epicureo, che apprezza la condizione di una città pacifica e che trascorre la vita tra banchetti e canti, ora un peripatetico, che ammette tre generi di beni, ora un seguace dell'Accademia, il quale afferma che tutto è incertezza. È evidente che nessuna di queste dottrine sussiste in lui, perché ci sono tutte, ma esse si escludono a vicenda. Concediamo pure a loro che Omero fosse un filosofo; in questo caso non c'è dubbio che egli divenne saggio prima di avere alcuna nozione di poesia. Cerchiamo dunque di apprendere ciò che rese Omero un filosofo. A mio parere, ricercare se sia vissuto prima Omero o Esiodo attiene al nostro problema non più di quanto interessi sapere perché mai Ecuba, pur essendo più giovane di Elena, portasse tanto male i propri anni. E allora, dico io, tentare di stabilire l'età di Patroclo e di Achille pensi che abbia qualche importanza? Cerchi in quali terre Ulisse abbia errato invece di fare in modo che noi non cadiamo perennemente in errore? Non ho tempo di stare a sentire se Ulisse fu sbattuto tra l'Italia e la Sicilia o al di là del mondo a noi conosciuto (infatti non avrebbe potuto errare tanto a lungo in uno spazio così angusto): le tempeste dell'animo ci agitano ogni giorno con violenza e la nostra depravazione ci spinge irresistibilmente in tutte le disavventure incontrate da Ulisse. Non manca la bellezza che stimola i nostri occhi; non manca il nemico; da una parte, mostri efferati e ghiotti di sangue umano, dall'altra, insidiosi allettamenti delle orecchie; e ancora ne derivano naufragi e ogni varietà di sventure. Insegnami come amare la patria, mia moglie, mio padre, come navigare anche dopo un naufragio verso quelle mete così nobili. (...) Il geometra mi insegna a misurare i latifondi invece di insegnarmi a misurare quanto basta per l'uomo: mi insegna a fare i conti e predispone le mie dita alla cupidigia invece di insegnarmi che codesti calcoli non servono a nulla, che non è più felice chi ha un patrimonio tale da affaticare una squadra di contabili. Dovrà anzi insegnarmi quanti beni superflui possiede colui che si sentirà infelicissimo, se sarà costretto a calcolare da sé quanto realmente possiede. Che cosa mi giova saper dividere in parti un campicello, se non so dividerlo con mio fratello? Che cosa importa calcolare con precisione i piedi di un iugero e valutare se qualche frazione è sfuggita a una pertica, qualora sia amareggiato da un vicino prepotente, uno che carpisce qualcosa del mio? Mi insegna come non perdere alcuno dei terreni di cui sono legittimo proprietario; ma io voglio imparare a perderli tutti con animo sereno. "Sono cacciato" si dice "dal campo di mio padre e di mio nonno." E allora? Prima di tuo nonno chi lo occupava? Sei in grado di spiegarmi non dico quale uomo, ma quale popolo lo abbia posseduto in origine? Non vi sei entrato come padrone, ma come colono. Colono di chi? Se per te tutto va liscio, del tuo erede. Gli esperti di diritto sostengono che nessun bene pubblico è soggetto a usucapione; ebbene, ciò che possiedi, ciò che definisci tuo, appartiene a tutti e, per essere più precisi, al genere umano. O che arte egregia! Sai misurare i cerchi, trasformi in quadrato qualsiasi figura ti si presenti, determini le distanze fra le costellazioni, non c'è nulla che non cada sotto la tua misura. Se sei un maestro nella tua arte, misura l'animo umano, dimmi quanto è grande, dimmi quanto è piccolo. Sai che cosa è la retta. Bene, ma che ti giova se ignori ciò che sia nella vita la rettitudine?
(Seneca; "Lettere a Lucilio")
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