giovedì 20 giugno 2024

Ecco giorni in cui tutto intorno mi è luce

Cosa non può una piccola luna. Ecco giorni in cui tutto intorno mi è luce, leggero, appena accennato nell'aria luminosa, e tuttavia nitido. Quello che è più vicino ha già una tonalità remota, è sottratto o soltanto indicato, non offerto;  quanto ha rapporto con lo spazio: il fiume, i ponti, le vie lunghe e le piazze che si spendono prodighe, tutto questo lo spazio l'ha preso dietro di sé, è dipinto su di esso come su seta. Non è possibile dire, allora, cosa può essere una carrozza verdechiaro sul Pont-Neuf o un rosso infrenabile o anche soltanto un manifesto sul muro spartifuoco d'un gruppo di case grigioperla. Tutto è semplificato, ridotto a pochi piani chiari e precisi come il viso in un ritratto di Manet. E nulla è minuscolo o superfluo. I bouquinistes aprono sul quai i loro cassoni e il giallo fresco o consunto dei libri, il bruno violaceo delle legature, il verde più grande di una cartella: tutto è giusto, ha valore, partecipa e forma molteplicità in cui nulla manca.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

Sedevo là come dissolto

Dovevo avere allora dodici, al più tredici anni. Mio padre m'aveva portato a Urnekloster. Non so cosa lo inducesse a visitare suo suocero. Erano anni che i due non si vedevano, dalla morte della mamma, e mio padre non era ancora mai stato nel vecchio castello in cui il conte Brahe s'era ritirato soltanto tardi. In seguito non ho più rivisto la dimora singolare che, con la morte del nonno, passò in mano di estranei. Come la ritrovo nel mio ricordo infantilmente elaborato, non è un edificio nella sua interezza; dentro di me è tutto diviso: là una stanza, qua una stanza e qui un tratto di corridoio che non unisce queste due stanze ma s'è conservato per sé, come un frammento. In questo modo tutto è sparpagliato dentro di me - le camere, le scale che si adagiavano con tanta lentezza, altre scale strette, a spirale, nel cui buio si avanzava come il sangue nelle vene; le camere delle torri, i balconi sospesi in alto, le altane inattese in cui si finiva, spinti da una porticina: tutto ciò è ancora dentro di me e non cesserà mai di essere dentro di me. È come se l'immagine di questa casa fosse caduta in me da un'altezza incalcolabile e fosse andata in frantumi sul mio fondo.
Conservata integra nel mio cuore, mi pare, è soltanto la sala in cui eravamo soliti raccoglierci per cena, ogni sera alle sette. Non vidi mai la stanza di giorno, non ricordo neppure se aveva finestre e dove queste davano; ogni volta che la famiglia entrava, le candele bruciavano su candelabri massicci; e dopo qualche minuto si perdeva cognizione del tempo e di tutto quello che s'era visto fuori. Quell'ambiente alto, credo a volta, era più forte di tutto; con la sua altezza che s'abbuiava, con i suoi angoli mai del tutto rischiarati, vuotava d'ogni immagine, senza dare niente da sostituire. Sedevo là come dissolto: privo di volontà, di coscienza, di piacere, di difesa. Ero come uno spazio vuoto. Ricordo che quello stato di annientamento mi provocò sulle prime quasi una nausea, una specie di mal di mare che superai solo allungando una gamba fino a raggiungere col piede il ginocchio di mio padre, seduto di fronte a me. Solo più tardi mi colpì il fatto che egli comprendesse o almeno tollerasse quel comportamento singolare, sebbene i nostri rapporti fossero quasi freddi, tali da non giustificare un simile comportamento. Era pertanto quel leggero contatto a darmi la forza d'arrivare in fondo ai lunghi pranzi. E dopo alcune settimane di sopportazione convulsa, con la capacità di adattamento quasi illimitata dei ragazzi, m'ero così abituato al carattere inquietante di quelle riunioni, che non mi costava più sforzo alcuno restare a tavola due ore; il tempo trascorreva, anzi, in modo relativamente rapido, perché mi occupavo a osservare i presenti.


(Rainer Maria Rilke; "I quaderni di Malte Laurids Brigge")

sabato 1 giugno 2024

...mi sentivo interiormente calmo e rassicurato

Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato. Se mi fossi fermato alle emozioni, allora forse sarei stato distrutto dai contenuti dell'inconscio. Forse avrei anche potuto scrollarmele di dosso, ma in tal caso sarei caduto inesorabilmente in una nevrosi, e alla fine i contenuti mi avrebbero distrutto ugualmente. Il mio esperimento m'insegnò quanto possa essere di aiuto - da un punto di vista terapeutico - scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni.


(Carl Gustav Jung; "Ricordi, sogni, riflessioni")

...quel divino stato d'innocenza che era meglio non disturbare

Ritenevo che, finché conoscevo così poco delle cose reali, non fosse il caso di riflettere su di esse: chiunque poteva fantasticare, ma la vera conoscenza era tutt'altra questione. I miei genitori mi permisero di abbonarmi a un periodico scientifico che leggevo con appassionato interesse. Mi misi alla ricerca, per farne collezione, di tutti i fossili che fosse possibile trovare sulle nostre montagne del Giura, e di tutti i minerali possibili, e anche di insetti e di ossa di mammouth e umane (le ossa di mammouth le trovai nelle cave di ghiaia della pianura renana, le ossa umane in una tomba comune, presso Hüningen, del 1811). Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dirne la biologia era interessante, ma non era l'essenziale: che cosa poi fosse l'essenziale, non me lo sapevo spiegare. Per esempio, in che rapporto erano le piante con la religione cristiana o con la negazione della volontà. Ecco qualcosa che non riuscivo a penetrare; ma certamente esse partecipavano di quel divino stato d'innocenza che era meglio non disturbare.


(Carl Gustav Jung; "Ricordi, sogni, riflessioni")

Impulsi irresistibili lo afferrarono

(...) il richiamo che sempre risuonava nelle profondità della foresta. Quell'appello lo colmava di una grande irrequietudine e di strani desideri, provocava in lui una vaga, dolce felicità, ed egli si rendeva conto di selvaggi desideri e impulsi per cose che non conosceva. Qualche volta seguiva il richiamo nella foresta, cercandolo come se fosse una cosa tangibile, latrando dolcemente o a sfida, a seconda dell'umore. Cacciava il naso nel fresco muschio del bosco, o nella nera terra dove crescevano alte erbe, e fiutava con gioia i grassi odori del terreno; oppure stava acquattato per ore, come se si nascondesse, dietro i tronchi ricoperti di funghi o gli alberi abbattuti, con gli occhi e gli orecchi tesi a tutto ciò che si muoveva o risuonava intorno a lui. Forse, standosene così, sperava di sorprendere quel richiamo che non riusciva a capire. Ma non sapeva perché facesse tutto ciò. Era costretto a farlo, ma non poteva afferrarlo con il pensiero.
Impulsi irresistibili lo afferrarono. Se ne stava magari tranquillo nell'accampamento, sonnecchiando oziosamente nel caldo pomeriggio, quando a un tratto ergeva la testa con le orecchie dritte, tutte intese ad ascoltare, e poi balzava in piedi e si slanciava avanti, sempre avanti, per ore, attraverso gli intercolunni della foresta e le aperte radure dove crescevano folti i canneti. Gli piaceva correre nei letti asciutti dei torrenti, spiare la vita degli uccelli del bosco. A volte per un giorno intero se ne stava  sdraiato nel sottobosco dove poteva osservare le pernici che andavano in su e in giù becchettando. Ma soprattutto gli piaceva correre nel cupo crepuscolo delle mezzanotti estive, ascoltando i soffocati e sonnolenti sussurri della foresta, interpretando segni e suoni così come un uomo può leggere un libro, e cercando quella misteriosa cosa che continuava, continuava a chiamarlo, nel sogno e nella veglia, ad ogni ora, perché la raggiungesse.
Una notte balzò dal sonno sussultando, l'occhio intento, le nari frementi, la criniera irta in onde fuggenti. Dalla foresta giungeva il richiamo (o per lo meno una nota di esso, ché il richiamo aveva molte note) distinto e definito come non mai: un lungo ululato, simile a un qualsiasi suono emesso da un cane eschimese, e tuttavia diverso. Ed egli lo riconobbe in quell'antico clima familiare come suono già udito. Balzò attraverso il campo addormentato, e rapido e silenzioso si precipitò tra i boschi. Via via che si avvicinava al grido rallentava la sua corsa, divenendo cauto in ogni movimento, finché giunse a una radura fra gli alberi e, spiando, vide, eretto sulle anche, il muso puntato al cielo, un lungo e sottile lupo dei boschi.


(Jack London; "Il richiamo della foresta")