mercoledì 30 settembre 2015

Ogni forma di silenzio è essenziale

Fatto degno di nota: non c’è silenzio frivolo, silenzio superficiale. Ogni forma di silenzio è essenziale. Quando lo si assapora, si conosce automaticamente una sorta di supremazia, una strana sovranità. È possibile che ciò che si designa con interiorità non sia nient’altro che un’attesa muta. Perciò, non c’è "vita vera" o, semplicemente, vita spirituale che non implichi la morte dell’immagine e della parola, la distruzione - nel più profondo dell’essere - di questo mondo e di tutti i mondi. L’esperienza mistica, al suo limite estremo, si identifica con la beatitudine di un supremo rifiuto.


(Emil Cioran)

Come capisco Michelangelo

Come capisco Michelangelo quando dice: "Io vivo di ciò di cui muoiono gli altri"! Non c'è altro da aggiungere sulla solitudine...


(Emil Cioran)

domenica 27 settembre 2015

Della frescura

della frescura
faccio la mia casa,
e qui riposo

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suzushisa wo
waga yado ni shite
nemuru nari


(Matsuo Basho)

Diogene


S.Giuliano d'Albaro, 10 giugno 1907, notte

(...) da molto tempo sapevo di esservi antipatico: forse prima ancora che lo sapeste Voi... (...) io ho un intuito rapido e infallibile per presentire il giudizio delle donne a mio riguardo.  Aggiungete che una sera mi avete, anche, fatta una cosa cattiva. D’incarico della direzione, io giravo per la 'Cultura', invitando i soci ad apporre le firme per un acquisto. Venne il turno vostro e di vostra sorella; mi avvicinai urbanamente; urbanamente mi scusai di distogliervi dalla lettura, vi porsi la penna: Voi apponeste la firma. Poi, come io mi credetti in dovere di dirvi il mio nome, Voi scattaste in piedi con un tale atteggiamento di sorpresa sdegnata che non seppi e non saprei definire: un atteggiamento che mi ricorda la fierezza ribelle di certi vostri sonetti. E - più cattiva - faceste questo, per non tendermi le mani: ne tratteneste una dietro le spalle, a far volteggiare la sedia, e imprigionaste l’altra, accerchiandola tre volte nel boa, un gran boa di piuma nera, mi pare. Vi ero antipatico: non mi stupisco. Tutte le donne mi trovano così prima di conoscermi. (Non parliamo degli uomini: mi detestano e li detesto; non ho amici. E anche i miei amici più cari sono fra le donne). Tutte mi trovano così; ma poi mi vogliono bene. Mi vorrete bene anche Voi. E Voi? Credete di essermi molto simpatica Voi? Avete invece, agli occhi miei, delle qualità allontananti. Prima di tutto siete bella. E precisamente di quella bellezza che piace a me. Vi ho veduta poco, ma osservata molto: siete proprio bella (vi giuro che ho dispetto, quasi, di doverne così stupidamente convenire!). Vi ho studiata molto. Non ho mai potuto capire, ad esempio, se, sotto i grandi caschi piumati, alla Rembrandt, che voi prediligete, i vostri capelli siano spartiti alla foggia antica o no; ma ho benissimo impresse le ondulature che hanno alle tempia e la mollezza con che si raccolgono in nodo, dietro la nuca. Ho presente anche questo: che avete bei denti e una bella bocca, piuttosto grande e fresca e attirante come poche, e che avete due begli occhi (anche di questo devo convenire, e quasi con dispetto) due occhi d’una dolcezza servile: gli occhi di colei che s'inchina al despota Signore e gli tende i polsi febbrili e li vede cerchiare di catene, quasi godendone; avete anche il profilo che piace a me, vestite come piace a me e camminate come piace a me - con l’eleganza un po' stracca e un po' trasognata della nostra massima attrice... Vedete che c'era di che rifuggire la vostra conoscenza. (...) Una volta... ma no! non posso dirvi: guai se io m’abbandono alla sincerità fraterna: divento villano… Volete assolutamente sapere? E sia! Ma badate che non mi prendo responsabilità e vi ricostruisco il dialogo testualmente. Una volta, l’anno scorso, noi - Vallini Bassi Vugliano ed altri -  eravamo nella sala dei giornali, voi - sola - in quella delle riviste, in piedi, eretta, sfogliando col braccio proteso le rassegne sul tavolo. E fra di noi si dicevano più o meno queste cose:
– È bella.
– Sì, è bella!
– Ma scrive.
– E non male.
(...)
– Che peccato!
– Che cosa?
– Che sia Signorina.
– E che sia per bene.
– Che peccato: è proprio bella!
– Fosse almeno analfabeta.
– Ma scrive!
– Detestabili le donne che scrivono! Se scrivono male ci irritano.
– Se scrivono bene ci umiliano.
– Tacete! È qui che viene!
E voi, Amica mia, passaste fra di noi, altera dignitosa tranquilla. Ma certo sentiste sul vostro passaggio qualche cosa che vi spiacque; come un’ostilità - (no: un’ostilità è troppo) - ma una freddezza indefinibile; e sentiste ancora nell'aria un non so che di avverso, d'ironicamente piccolo e volgare (come piccoli e volgari siamo tutti noi uomini, nell'intimo. Tutti: non vi fate illusione). Vi ho dialogato questo ricordo, amica mia, per definire quel non definibile senso che ci separava e che voi sentivate e che io sentivo: era l’ambiente, l’ironia volgare dell’ambiente. Ora invece lontani - io seriamente ammalato ed esiliato dalla città per due, tre anni: forse più - possiamo benissimo essere amici. Voi mi avete parlato di corrisponderci. Immaginate! Ma voglio essere leale fin dagl'inizii, come si usa fra i mercatanti: io non sono un amico spirituale: sono tutt'al più un mediocre interlocutore cerebrale... Non credo nella psiche e ho un profondo disprezzo per la mia e per la vostra anima, alle quali non attribuisco maggior valore dell’energia che muove un lombrico e della clorofilla che colorisce uno stelo d’erba: e lo stesso vostro canto, così sdegnoso pur nella passione, così alto e puro e casto non è che il grido del vostro pudore convulso, contratto sotto la sferza dell’istinto, dell'istinto che provvede all'eternità della specie... Accettate per amico un uomo che vi dice questo? Badate che il mio modo di pensare mi condurrà qualche volta a scrivervi cose di una rudezza tale da confinare con la sconvenienza... Sarete tanto superiore da perdonarmi? E cominciate a perdonarmi la prolissità di questa lettera - siamo al terzo foglio, mi pare! - Quest’oggi, come sovente, furono qui i miei amici di Genova, giornalisti e poeti tutte anime fraterne e malate del nostro stesso male, mia buona Amica. Si fu in barca, al solito, si dissero dei versi, al solito, e si fece anche, delizia inconsueta, una scorpacciata di banane e di nespole. Ci lasciammo andare alla deriva tutto il giorno, fino al crepuscolo, sopra un mare color di niente, tanto che pareva di volare. (...) Amica mia, sono esausto! Ho logorata la vostra bontà, ho logorata la mia energia, e ho logorato anche il pennino! Non rileggo il fascicolo: temo di avervi dette cose brutte. Fate voi: vagliate e perdonate. Vi bacio la mano, come s'usa, e poi ve la stringo forte forte, come piace a me.

Gozzano vostro


(Guido Gozzano, Lettera ad Amalia Guglielminetti)

Qual è il tuo tormento?

Nella prima leggenda del Graal è detto che il Graal, pietra miracolosa che in virtù dell'ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a chi per primo dirà al custode della pietra, il re quasi paralizzato dalla più dolorosa ferita: "Qual è il tuo tormento?". La pienezza dell'amore del prossimo sta semplicemente nell'essere capace di domandargli: "Qual è il tuo tormento?", nel sapere che lo sventurato esiste, non come uno fra i tanti, non come esemplare della categoria sociale ben definita degli "sventurati", ma in quanto uomo, in tutto simile a noi, che un giorno fu colpito e segnato dalla sventura con un marchio inconfondibile. Per questo è sufficiente, ma anche indispensabile, saper posare su di lui un certo sguardo.


(Simone Weil)

sabato 26 settembre 2015

Ritornerò

Io ritornerò alla poesia come alla patria alla casa
Come all'antica infanzia che persi per trascuratezza
Per cercare ostinata la sostanza di tutto
E gridare di passione sotto mille luci accese.

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Eu regressarei ao poema como à pátria à casa
Como à antiga infância que perdi por descuido
Para buscar obstinada a substância de tudo
E gritar de paixão sob mil luzes acesas.


(Sophia de Mello Breyner Andresen)

Le voci più importanti

Ritengo che anche domani le voci più importanti saranno quelle degli artisti che faranno sentire, attraverso la loro voce di isolati, un'eco del fatale isolamento di ognuno di noi. In questo senso, solo gli isolati parlano, solo gli isolati comunicano; gli altri - gli uomini della comunicazione di massa - ripetono, fanno eco, volgarizzano le parole dei poeti, che oggi non sono parole di fede, ma potranno forse tornare ad esserlo un giorno.


(Eugenio Montale)

domenica 20 settembre 2015

E subito riprende il viaggio

E subito riprende il viaggio
come dopo il naufragio un superstite lupo di mare.


(Giuseppe Ungaretti)

Qual è mai questa verità che una pellicola sa afferrare?

Il socio più importante di questa ditta, quello che ha più soldi, che è sempre malato in un luogo imprecisato, ha voluto, non so per quale capriccio di un intervallo della malattia, avere una fotografia di gruppo del personale dell'ufficio. E così, ieri l'altro, ci siamo schierati tutti in posa, su indicazione dell'allegro fotografo, contro il tramezzo bianco-sporco che divide, con il fragile legno, l'ufficio comune dal gabinetto del signor Vasques. Il signor Vasques stava al centro; ai due lati, in una distribuzione prima definita, poi casuale di categorie le altre anime umane che ogni giorno riuniscono in questo luogo i loro corpi per attendere a piccoli doveri di cui solo il segreto degli Dei conosce l'ultimo scopo. Oggi, quando sono arrivato in ufficio, un po' tardi e in realtà già dimentico dell'avvenimento statico della fotografia scattata due volte, ho trovato Moreira, inaspettatamente mattutino, e uno degli impiegati di banco, golosamente chini su delle cose annerite che ho subito riconosciuto con un trasalimento come le prime prove delle fotografie. Invece erano soltanto due copie della stessa fotografia, quella che era venuta meglio. Ho patito la verità di vedermi lì, dato che, come è naturale, ho cercato per primo me stesso. Non ho mai avuto un'idea nobile della mia presenza fisica, ma mai l'avevo sentita così insignificante come in confronto agli altri visi, che conoscevo così bene, in quella fila di persone di ogni giorno. Sembro un gesuita smunto. Il mio viso magro e inespressivo non possiede intelligenza né intensità, né una cosa qualsiasi che lo faccia emergere dalla marea morta degli altri visi. O meglio, non è una marea morta. Vi sono dei volti veramente espressivi. Il signor Vasques è esattamente com'è: la larga faccia gioviale e dura, lo sguardo fermo, i baffi rigidi che danno il tocco finale. L'energia, la furbizia di quell'uomo (tutto sommato così banali e così spesso riprodotte in tante migliaia di uomini in tutto il mondo) sono scritte in quella fotografia come in un passaporto psicologico. I due commessi viaggiatori sono stupendi; il commesso del banco è venuto bene ma è rimasto quasi nascosto da una spalla di Moreira. E Moreira! Il mio superiore Moreira, essenza della monotonia e della continuità, è molto più vivo di me! Perfino il garzone (me ne accorgo senza poter reprimere un sentimento che cerco di supporre non sia invidia) possiede una sicurezza di lineamenti, un'espressione diretta che è a migliaia di sorrisi di distanza dal mio squallore insignificante da sfinge di cartoleria. Che cosa significa tutto ciò? Qual è mai questa verità che una pellicola sa afferrare? Qual è questa certezza che una fredda lente documenta? Chi sono io per essere così? Tuttavia... E l'insulto dell'insieme? "Lei è riuscito benissimo in fotografia," dice ad un tratto Moreira. E poi interpella il commesso di banco, "È proprio lui tale e quale, non trova?". E l'impiegato di banco annuisce subito con un'allegria amichevole che mi riduce a spazzatura.


(Fernando Pessoa; "Il libro dell'inquietudine")

venerdì 11 settembre 2015

A galla

Chiari mattini,
quando l'azzurro è inganno che non illude,
crescere immenso di vita,
fiumana che non ha ripe né sfocio
e va per sempre,
e sta - infinitamente.

Sono allora i rumori delle strade
l'incrinatura nel vetro
o la pietra che cade
nello specchio del lago e lo corrùga.
E il vocìo dei ragazzi
e il chiacchiericcio liquido dei passeri
che tra le gronde svolano
sono tralicci d'oro
su un fondo vivo di cobalto,
effimeri...

Ecco, è perduto nella rete di echi,
nel soffio di pruina
che discende sugli alberi sfoltiti
e ne deriva un murmure
d'irrequieta marina,
tu quasi vorresti, e ne tremi,
intento cuore disfarti,
non pulsar più! Ma sempre che lo invochi,
più netto batti come
orologio traudito in una stanza
d'albergo al primo rompere dell'aurora.
E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c'è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,

e che il cammino è sempre da ricominciare.


(Eugenio Montale)

domenica 6 settembre 2015

Ma in me non incontro che dubbio

Più leggo - e leggo troppo, ahimè! - più trovo che "non ci siamo", che il "vero" sfugge a tutti questi libri che la mia pigrizia divora. Il "vero" bisogna trovarlo in se stessi, non altrove. Ma in me non incontro che dubbio e riflessione sul dubbio.


(Emil Cioran)

Vedere, sentire, ricordare, dimenticare

Alcuni mesi sono trascorsi dalle ultime cose che ho scritto. Ho attraversato un sonno dell'intelletto Grazie al quale la mia vita è stata la vita di un altro. Ho avuto frequentemente una sensazione di felicità traslata. Non sono esistito, sono stato un altro, ho vissuto senza pensare. Oggi, all'improvviso, sono tornato a ciò che sono o sogno di essere. È stato un momento di grande stanchezza, dopo un lavoro senza particolare importanza. Ho poggiato la testa contro le mie mani, con i gomiti appoggiati all'alto tavolo inclinato. E, ad occhi chiusi, mi sono ritrovato. In un falso sonno lontano ho ricordato tutto quanto ero stato, ed è con nitidezza della vista di un paesaggio che mi si è alzata all'improvviso, prima o dopo tutto, la parte larga del vecchio podere di campagna, dove a metà della visione, l'aia era vuota. Ho sentito subito l'inutilità della vita. Vedere, sentire, ricordare, dimenticare: tutto questo mi si è confuso in un vago dolore ai gomiti, con il mormorio incerto della strada vicina e i piccoli rumori del lavoro tranquillo nell'ufficio calmo. Quando ho appoggiato le mani sul tavolo inclinato e ad esso ho rivolto lo sguardo che doveva essere di una stanchezza piena di mondi morti, la prima cosa che ho visto, nel vedere, è stata una grossa mosca (quel lieve ronzio che non era dell'ufficio!) posata sul calamaio. L'ho contemplata dal fondo dell'abisso, anonimo e sveglio. Aveva dei toni verdi di un azzurro nero con un luccichio ributtante ma non brutto. Una vita! Chissà se per ignote forze supreme (dèi o demoni della Verità nella cui ombra erriamo), anch'io non sarò la mosca luccicante che si posa un attimo davanti a loro? Un pensiero facile? Un'osservazione già vecchia? Una filosofia senza sostanza? Forse; ma io non ho pensato: ho sentito. È stato carnalmente, direttamente, con orrore profondo e ho fatto il risibile paragone. Sono stato mosca quando mi sono paragonato a una mosca. Mi sono sentito mosca quando ho creduto di sentirlo. E mi sono sentito un'anima di mosca, ho dormito da mosca, mi sono rinchiuso come mosca. E il più grande orrore è che nello stesso tempo mi sono sentito io. Senza volere ho alzato gli occhi verso il soffitto, nel caso non scendesse su di me un righello supremo per schiacciarmi, come io potrei schiacciare quel moscone col mio righello. Per fortuna, quando ho abbassato gli occhi, la mosca senza fare rumore era sparita. Involontariamente l'ufficio era di nuovo privo di filosofia.


(Fernando Pessoa; "Il libro dell'inquietudine")

Grande Odalisque


giovedì 3 settembre 2015

Rivelazione

Mi sono risolto.
Mi sono voltato indietro.
Ho scorto
uno per uno negli occhi
i miei assassini.
Hanno
- tutti quanti - il mio volto.


(Giorgio Caproni)